Mosaico di pace, gennaio 2000
“Il nuovo millennio si aprirà con una legge fortemente innovativa…” È la profezia annunciata qualche settimana fa da Valdo Spini, il vulcanico presidente della Commissione Difesa della Camera a proposito della riforma delle Forze armate e dell’abolizione della leva obbligatoria. Si potrebbe dire: speriamo che il resto del millennio vada meglio!
Comunque, il tanto proclamato progetto (tipicamente “di sinistra”) del governo (“di sinistra”) D’Alema di riformare il nostro esercito e di renderlo completamente professionalizzato sta per diventare realtà, con la complicità del Parlamento che sembra concorde nell’approvare tale progetto e della legge finanziaria che è riuscita a trovare i 1.000 miliardi di lire aggiuntivi per il triennio 2000-2002 necessari per la transizione che dovrebbe, a partire dal 2005, eliminare il servizio di leva.
Nei suoi contenuti di fondo questa riforma pone non pochi problemi. Il primo e più vistoso, e più taciuto, è certamente quello dei compiti che si intendono affidare al “nuovo esercito del 2000”: qui pare che il progetto di un “Nuovo modello di difesa” presentato al Parlamento nel lontano 1991 e mai discusso nei suoi contenuti politici sia semplicemente messo in opera.
Nello specifico, poi, la riforma comporta: 1) una maggiorazione dei costi del capitolo Difesa del bilancio statale, in una situazione congiunturale della finanza pubblica tutta particolare; 2) l’indeterminatezza sulle funzioni interne alle Forze armate finora attribuite a personale di leva (ad esempio, il casermaggio: come molto coloritamente si è domandato il ministro Amato “chi pulirà i cessi?”); 3) l’indeterminatezza su alcune funzioni attribuite alle Forze armate sul territorio e finora assolte col concorso del personale di leva (sostegno al mantenimento dell’ordine pubblico, soccorso in caso di pubbliche calamità, protezione civile: finora, per spalare il fango in Piemonte o per fare la guardia al Palazzo di giustizia di Palermo abbiamo impiegato i militari di leva, ed ora?); 4) la possibile sperequazione nell’accesso ai pubblici concorsi da parte dei “volontari a ferma breve” dopo aver prestato servizio nelle Forze armate, dato che per questi si prevede una riserva di posti, col rischio che i corpi di vigili urbani e le forze di polizia si riempiano di “ex-rambo”; 5) l’assenza di riferimento a qualsiasi possibile impiego civile di personale in funzioni di difesa e di promozione della pace, soprattutto nell’opera di prevenzione dei conflitti.
Purtroppo, le reazioni contrarie a questo progetto sono state tiepide e, soprattutto sul versante pacifista, si sono concentrate sulla conseguenza che la riforma avrà sul servizio civile: sparito l’obbligo di leva, infatti, sparirà anche la possibilità di obiettare a quell’obbligo e di prestare un servizio civile sostitutivo.
Che cosa ne sarà del servizio civile dopo l’abolizione della leva obbligatoria? E’ la domanda che è circolata tra i professionisti del servizio civile, soprattutto in casa cattolica.
Il rischio che si corre è quello che per difendere la positività del servizio civile si debba arrivare a difendere il servizio militare… È indubitabile che il servizio militare di leva oggi abbisogni di una profonda riforma: la crisi è sotto gli occhi di tutti. Dinanzi a questa crisi, le istituzioni non sono riuscite a pensare e progettare altro se non l’eliminazione dell’oggetto stesso della crisi, cioè l’abolizione della leva militare obbligatoria. Infatti, tutte le altre misure intraprese negli ultimi anni non hanno inciso in alcun modo sui contenuti della leva militare e, conseguentemente, sull’indice di gradimento dei giovani. La sempre crescente preferenza dei giovani verso il servizio civile (più di 1 giovane su 3) è figlia anche di questa contingenza.
D’altra parte l’opposizione al servizio militare e la proposta del servizio civile sostitutivo si sono fondate su un netto giudizio negativo su quell’obbligo che lo Stato da duecento anni impone ai maschi italiani. Di qui deriva l’impossibilità del servizio militare d’essere inteso come apporto personale al benessere della comunità, perché altrimenti si dovrebbe spiegare quale sia mai il benessere costruito con e sugli eserciti e che cosa mai il cittadino che svolge servizio militare riceva dallo Stato (a parte le botte dai “nonni”). Infatti, il richiamo al dovere di solidarietà e al dovere di difesa della patria non può permettere di fondare tali doveri su qualcosa di aberrante, come il servizio militare. E’ lo stesso discorso che vale per le donne in caserma: si fonda il principio di equità e di pari opportunità su un’esperienza (il servizio militare) sul quale non si può essere d’accordo. Insomma, i valori devono essere positivi perché si possano fondare sopra di essi i doveri.
Un altro spunto di riflessione deriva dall’idea che la leva obbligatoria abbia fin qui garantito la “popolarità” (in termini numerici, ovviamente) della difesa e che la professionalizzazione dell’esercito si traduca in una delega per la comunità. Ma siamo proprio convinti che 140.000 giovani (tanti sono coloro che nel 1999 sono stati chiamati al militare) garantiscano quell’esercito “di popolo” che ci fa stare a posto con la Costituzione? E a proposito di Costituzione, non possiamo dimenticare che l’esistenza della leva obbligatoria non ha affatto impedito all’Italia di combattere una guerra contro la Serbia, così come non impedì di combatterla contro l’Iraq…
Dunque, recriminare il mantenimento della leva obbligatoria e magari proponendo l’istituzione di un servizio civile obbligatorio non significa forse perdere di vista l’obiettivo centrale di questa riforma che d’altronde altro non è che la conseguenza ultima dell’aver assunto il “Nuovo modello di difesa” come criterio di scelta della politica estera ed economico-militare del nostro Paese?
Può essere utile riconoscere che forse la sconfitta maggiore che i fautori dell’obiezione e del servizio civile debbono subire consiste nel non aver fatto assumere al servizio civile quella dignità sul piano politico che lo poteva “paragonare” al servizio militare, al di là delle sentenze o dei reali gesti compiuti dagli obiettori. In altre parole, a livello politico, quando si parla di difesa, s’intende sempre e solo quella militare. In questo, una certa responsabilità è attribuibile a chi si è accontentato in questi anni dei successi del servizio civile (perfino dell’approvazione della nuova legge) ma ha lasciato in secondo piano il discorso della difesa militare, che è quello su cui si misura la “profezia”.
È ora, pertanto, di rilanciare una posta più alta, l’unica per la quale val la pena spendersi. In fondo, l’obiettivo dovrebbe essere sufficientemente chiaro: è quello che il Catechismo degli adulti della Cei indica con “Abolire la guerra”.
Diego Cipriani
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