Rivista del Volontariato, aprile 2000
La Caritas italiana da qualche mese ha avviato una riflessione sulla sua presenza internazionale e ha definito le linee di un progetto per la formazione di giovani, ragazzi e ragazze, che scelgono il servizio civile all’estero. Oggi la legge 230 sull’obiezione di coscienza prevede la possibilità di realizzare all’estero, in missioni umanitarie, nella cooperazione internazionale, o in forme nuove di difesa civile e non violenta, il servizio civile. La parte della legge sull’obiezione di coscienza rimarrà in vigore finché la Camera dei deputati non sospenderà la leva obbligatoria. Se l’iter attuale della legge sull’esercito di professionisti rispetterà i tempi, ciò avverrà a novembre. Non si parlerà più di leva obbligatoria e quindi non ci sarà più ragion d’essere dell’obiezione di coscienza. Resterà in vigore la parte della 230 che riguarda il servizio civile, che verrà scelto al pari dell’esercito.
Attualmente si contano 163 mila militari e 56 mila obiettori di coscienza. Le domande di obiezione sono passate dalle 143 del 1972 alle 102.040 del 1999. L’Italia, insieme alla Germania e alla Spagna, è il Paese europeo con il maggior numero di obiettori di coscienza, anche perché si tratta degli ultimi Paesi dove è rimasta la leva obbligatoria.
Il fatto è che buona parte di chi chiede di fare l’obiettore vuole andare all’estero. È questo il fenomeno più evidente e più nuovo degli ultimi anni. E non è sbagliato dire che in futuro ciò si accentuerà, anche perché la cooperazione, oltre ad essere un buon business, offre ottima visibilità mediatica per molti: associazioni e singole persone. Non ci saranno solo le organizzazioni non governative, alcune di grande tradizione, che faranno la cooperazione internazionale, ma se ne potranno occupare gli Enti locali, i Comuni, le Provincie, le Regioni, predisponendo progetti e inviando volontari. E si rischia il caos, il pressappochismo, la burocrazia, le connivenze utili solo alla costruzione dell’immagine. E il Terzo mondo, le zone di guerra, i luoghi dove la gente soffre diventano palestre educative per la coscienza dei volontari.
Molte associazioni, al primo posto la Focsiv e la Caritas, hanno avviato da tempo la riflessione su questi temi. Ma negli ultimi mesi hanno deciso di stringere proprio perché la normativa cambierà e si ha l’impressione che sempre più saranno i giovani che chiederanno di andare all’estero a fare volontariato.
In un seminario ristretto e a porte chiuse che si è tenuto a Perugia poco prima di Natale sono state dettate le linee per il progetto del servizio civile all’estero della Caritas: poche persone, ma preparate. Soprattutto oggi che nei campi profughi, nelle prigioni, tra le macerie delle guerre civili non si tratta più (o solo) di salvare i corpi, ma di ristabilire la dignità delle persone e sostenere la ricostruzione non solo materiale, ma anche sociale e morale, delle comunità andate in crisi e spezzate dalla violenza. Insomma, dice Paolo Cereda, del settore internazionale della Caritas: “Fare l’ambulanza della storia nelle catastrofi umanitarie serve a ben poco, se l’intervento non è sostenuto da un’adeguata azione politica locale, regionale e internazionale e da una conoscenza dei contesti geopolitici».
Le crisi internazionali infatti sono sempre più prevedibili, se non annunciate, e volontari e cooperatori possono essere preparati per tempo all’intervento. Anzi potrebbero perfino anticipare le crisi, proponendo modi di riconciliazione tra gli attori e proponendo alla comunità internazionale, non avendo loro interessi di parte, come anticipare la pace invece di preparare la guerra. Cereda è assolutamente convinto che un’azione umanitaria che sfrutta solo i media, cioè che è in qual che modo congenita al mercato della guerra o alla guerra come mercato, alimenta o spesso origina le guerre.
L’ipotesi è più che suggestiva e ciò che è accaduto in questi anni in molte parti della terra e soprattutto nei Balcani può dimostrane la fondatezza. Ecco perché il ragionamento quotidiano e le categorie di analisi devono essere continuamente aggiornate in chi si occupa di aiuto e azione umanitaria internazionale. Ecco perché non va lasciata alla retorica della buona volontà di singole persone e di istituzioni politiche o della società civile la preparazione dei volontari.
AI primo posto ci sono i numeri: puntare sulla qualità e non sulla quantità.
E poi ci sono i tempi, cioè non meno di 12 mesi con periodi di compensazioni se il luogo è particolarmente difficile o pericoloso, sia psicologicamente che materialmente. La preparazione, secondo il progetto della Caritas, prevede tre tempi. Prima: selezioni, tirocinio sulla realtà locale, studio della lingua. Durante: verifica periodica. Dopo: elaborazione del “lutto” a fine esperienza per evitare che esperienze “forti” in zone a rischio finiscano per essere considerate come l’unica prospettiva di vita, per esempio, per attuare il Vangelo dei poveri e della carità.
La formazione prevede inoltre lo studio delle tecniche di comunicazione delle esperienze alle diocesi dalle quali provengono i volontari. Un’esperienza di questo tipo infatti deve saper interrogare la pastorale ordinaria della Chiesa locale, deve essere in grado di porre questioni ai cristiani, deve costruire la prossimità tra mondo e situazione locale, deve aiutare a comprendere la vita da prospettive più larghe e complicate da quelle che normalmente sono gli orizzonti parrocchiali o diocesani. E infine deve servire a far capire che l’educazione alla pace non è una tecnica, che sanno applicare i volontari esperti, ma uno stile di vita che provoca tutti: i volontari vanno a nome di una comunità territoriale, dopo aver acquisito competenze.
Agostino Mantovani, presidente della Focsiv, ha ben accolto la decisione della Caritas di spendere risorse per la formazione dei volontari del servizio civile all’estero, ma non evita di lanciare l’allarme riguardo alle previsioni di migliaia di volontari, si dice tra gli 8 e 10 mila, pronti a riversarsi nei Paesi del Terzo mondo: “Fare che cosa? È lecito chiederlo. Con quale preparazione? Più aumenta il numero più è difficile provvedere ad essa. E, se va in porto la norma che anche gli Enti locali potranno organizzare la cooperazione internazionale, le preoccupazioni aumentano. Progetti e volontari rischiano di essere utilizzati da sindaci e assessori per costruirsi visibilità politica qui da noi. L’unico rimedio è quello di coordinare la formazione e le partenze insieme tra Pocsiv, Caritas e laicato missionario».
Alberto Bobbio
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