Obiezioni insufficienti e ubbidienze servili

Il Popolo, giovedì 14 febbraio 1963

 

Nell’affrontare il tema dell’obiezione di coscienza si corrono due opposti rischi a seconda che per indole, educazione, sensibilità, professione, esperienza si sia portati a battere l’accento sull’individuo, sull’uomo singolo o sulla comunità, sullo stato, sugli istituti giuridici che regolano la convivenza civile.

Un filosofo più facilmente di uno studioso del diritto difenderà le ragioni dell’obiettore di coscienza; un uomo politico motiverà nel profondo di se stesso le proprie tesi a seconda che la propria parte abbia funzioni dirigenti nella vita del Paese o sia all’opposizione; il cittadino chiamato a indossare una divisa reagirà diversamente a seconda che si senta compartecipe della società nella quale vive e agisce o in posizione di protesta e ribellione, fattore vivo di un processo di sviluppo o oppositore cosciente di quello che Mounier definì «disordine costituito».

Queste opposte visuali nascono da un fondo passionale, emotivo, che può arrivare anche fino alla ideologia ma cela malamente un manicheismo d’origine, un procedere per piani contrapposti, per insanabili antinomie (uomo e società, coscienza e legge, esperienza esistenziale e realtà storica) per lacerazioni e fratture. Il problema evidentemente, anche qui, è quello di una sintesi che faccia salve le tre dimensioni dell’uomo (una che lo lega a se stesso, l’altra che lo porta a riconoscersi negli altri, la terza che lo pone in rapporto con la trascendenza, quale che essa sia) e lo restituisca integro alla propria coscienza e alla propria volontà di comunicazione.

Difendere l’obiezione è abbastanza facile: nessuno contesta che la coscienza sia l’ultimo giudice naturale al quale rispondere; che la fedeltà alla propria coscienza possa implicare anche il rifiuto del1e leggi e dell’ordine costituito, tanto più se di un simile rifiuto si è disposti, senza ambiguità, a sopportare le inevitabili conseguenze; nessuno contesta che le dimensioni di un conflitto renderebbero molto complessa per una coscienza individuale la stessa distinzione tra guerra giusta e ingiusta formulata dalla teologia; che la natura degli armamenti ha subito una tale trasformazione qualitativa da richiedere senza dubbio atteggiamenti straordinari per evitare lo scoppio di una conflagrazione non solo mondiale ma anche locale. Forzandone o no il senso ci si può richiamare ad esempi illustri: al rifiuto dei Cristiani di adorare l’imperatore, pur rispettandone le leggi; ai numerosi Santi per i quali la tragedia del sangue innocente versato fu motivo di Grazia e di penitenza, di solitudine e di preghiera; ci si può richiamare, come ha fatto recentemente padre Turoldo sull’«Avvenire d’Italia», al diritto riconosciuto ai sacerdoti di non prestare servizio militare; si può, infine, essere partecipi di una vocazione radicale, e perciò metastorica, a quella rivolta cristiana contro le dimensioni demoniache del mondo, e perciò del potere nel mondo, che appartiene al segno più segreto e scollante delle anime, alla storia di quelle oscure illuminazioni coscienziali della cui autenticità e verità nessuno può ergersi a giudice.

Inoltre la difesa disperata dell’uomo inerme che si batte per la difesa del sacro e dell’inviolabile che è in ogni creatura contro l’omicidio storico, contro quell’infanticidio differito che è la guerra, non può che provocare un impulso di simpatia e farci chiedere: se questi «esaltati sognatori», come sono stati definiti, non siano in realtà dei solitari profeti sulle cui spalle gravi pressoché intero il doloroso e tragico peso delle future immani tragedie (quando Soeren Kierkegaard nella sua Danimarca già chiusa nel cerchio di un opaco e ottuso benessere, cullata da una religione ufficiale e stipendiata, tesa a spegnere i riflessi interiori dell’uomo e a sostenere lo Stato, combatteva, dileggiato anche dai ragazzini per strada, la sua caparbia e solitaria battaglia contro l’hegelismo dominante, contro la riduzione dell’uomo a mero fenomeno schiacciato dall’Idea, in difesa del «singolo», insensibile o quasi ai rivolgimenti sociali e politici, nessuno pensava certo che la violenza del contrasto di idee tra il padre dell’idealismo e il solitario pastore danese avrebbe avuto – sul piano dell’esperienza storica – il suo disumano epilogo a Buchenwald, Dachau, Auschwitz).

Quasi altrettanto facile – anche se in questo caso gli spunti passionali ed emotivi si raggelano alquanto – è difendere il diritto della comunità a chiedere il concorso di tutti i suoi membri per la tutela e la salvaguardia della propria pace e dei propri giusti confini, per l’integrità del proprio libero ordinamento, per la gelosa custodia del proprio patrimonio civile, spirituale e sociale; difendere il dovere dell’obbedienza, la retta dimensione del rapporto tra autorità legittima e cittadini. E anche qui non mancheranno le esemplificazioni iIlustri: Santi guerrieri, uomini di pensiero, tesi alla pace e ad opere di pace che nel momento del dramma lo hanno patito nelle trincee fino in fondo, senza pentimenti, morendo magari in un assalto alla baionetta con il rosario in mano o un libro di versi nello zaino insanguinato.

Ma il problema non si risolve con contrapposizioni manichee, gettando sul piatto della bilancia in una assurda e quasi sacrilega sfida, Santi guerrieri e Santi disarmati, Cristiani della Chiesa primitiva e Vescovi che giurano obbedienza alle leggi dello Stato, Santi noti per le condanne dl eretici abbandonati poi al braccio secolare e Santi torturati in terra di missione. Gli obiettori non possono onestamente ritenere che i propri simili in grigioverde parteggino per l’omicidio organizzato, che essi soli, gli obiettori siano i tutori dei diritti della coscienza, i soli eredi del retto senso del Vangelo e del messaggio d’amore e di pace del discorso delle Beatitudini; al tempo stesso gli strenui difensori dell’ordine costituito anche se hanno il dovere di vigilare, non possono ritenere che gli obiettori siano dei visionari in cerca di pubblicità, degli anarchici privi di senso civico, dei nevrotici a sfondo mistico. Né

è giusto, con una arbitraria trasposizione di piani, addurre a motivo della ripulsa dell’obiezione di coscienza la necessità della difesa di un certo ordine politico, in sé e per sé, in quanto appunto l’obiettore di coscienza non risponde ad un interrogativo sulla giustizia o ingiustizia di un conflitto ipotetico, ma determinato, bensì rifiuta comunque l’ipolesi del conflitto, anche difensivo.

Ma vorremmo dire che neppure la religione può dare il discrimine esatto tra l’obiezione e l’obbedienza, nel senso che al fondo dell’obiezione c’è una ragione che preesiste ad ogni religione, c’è una motivazione che non necessariamente si fonda sui principii di una religione, rivelata o no, quale che essa sia, se obiettori di coscienza noi troviamo tra i cattolici e tra i protestanti, tra i buddisti e gli atei, tra gli scintoisti e gli agnostici. Le singole religioni possono arricchire di motivi e di prospettive il tema dell’obiezione di coscienza ma non qualificarlo né, tanto meno, determinarlo: l’obiezione è solo indicativa di un certo tipo (tipo e non grado o livello) di sensibilità morale, di coscienza intellettuale, di reattività al rapporto uomo-storia. Ci appare quindi non pertinente l’atteggiamento tenuto nella recente polemica sull’obiezione di coscienza da quanti hanno usato come parametro i principii tradizionali dell’ortodossia cattolica. Il silenzio del magistero ecclesiastico in materia va inteso, a nostro avviso, come riconoscimento di quel tanto di verità che, sul piano della morale individuale, l’obiezione di coscienza inevitabilmente sottintende non certo in rapporto ad una retta configurazione del rapporto potere Iegittimo-cittadino ma all’innegabile primato della coscienza, quale che sia la propria posizione religiosa.

Vale a dire che l’obiezione di coscienza non è non può essere il termine di confronto della autenticità e della pienezza di una dimensione religiosa – cattolica, in questo caso – della vita. Se qualcuno ha creduto di poter negare al giovane Gozzini la qualifica di cattolico ha preso un grosso abbaglio fondato oltretutto su una scarsa dimestichezza con la fondamentale tra le virtù cristiane, la carità; se il giovane Gozzini ha creduto che tra i doveri istituzionali dei cattolici rientrasse l’obiezione di coscienza, che la obiezione debba inevitabilmente discendere da una retta e profonda vocazione religiosa, anche qui siamo inevitabilmente fuori dal seminato.

Queste osservazioni, si dirà, non risolvono il problema della configurazione giuridica della obiezione di coscienza: ma ci sembra che esso sia stato puntualizzato con chiarezza dall’onorevole Andreotti quando ha scritto che «senza il timore di incoraggiare i furbi, gli obiettori senza coscienza e gli speculatori politici» si può approfondire l’idea dell’istituzione di un servizio civile di durata doppia di quello militare.

Ma vorremo aggiungere che questo aspetto, pur importante, del problema è, in un certo senso, marginale rispetto al dovere di testimoniare, ognuno secondo se stesso, la propria presenza cristiana nella storia e nel mondo. C’è chi crede che basti l’obiezione, chi l’obbedienza cieca; chi dinanzi a una vita che dirompe e frantuma tutti gli schemi avverte soprattutto il bisogno di far salva nella sua integrità quella che Ramuz definì la «misura dell’uomo» , la storia insieme all’uomo, appunto. E non bastano obiezioni soltanto quando le dimensioni del rinnovamento necessario sono ben più radicali; non servono obbedienze cieche e servili tese soltanto a convalidare egoismi sfrenati. Vorremmo citare Isaia e il suo sogno profetico sulle armi che diventano falci e aratri, ma questa è una speranza che va al di là dalle correnti speranze umane: ricordiamo però l’ammonimento di Péguy: «la rivoluzione o sarà soprattutto spirituale o non sarà».

 

Angelo Narducci