L’Osservatore Romano, 18 novembre 1961
Molto si parla del film di un regista francese in cui si fa l’apologia degli «obiettori di coscienza», cioè a dire di coloro che ritengono di dover rifiutare il servizio militare.
Sono mesi che la stampa dibatte la questione del film «Non uccidere» la cui proiezione, sinora, è stata proibita dalla censura italiana: la polemica ha sollevato echi assai vasti e vede associati fogli cosidetti di sinistra e giornali di varia indipendenza che in altre circostanze sono di ben diverso orientamento.
La discussione, infatti, è alimentata, a parte le ragioni della «cultura» cui tutti richiamano, da motivi diversi: la pellicola francese ha offerto un’occasione e un pretesto: li colgono, da un lato, quanti per voler una pace a senso unico perseguono la smobilitazione morale del mondo che chiamano «capitalista» e «imperialista». Dall’altro vi sono, anche gli interessi, molto concreti dei produttori cinematografici, i quali corrono il rischio di veder fermati dalla censura films già compiuti e pronti per esser immessi nel mercato.
La pellicola, infatti, è una merce con un costo di produzione assai elevato. Un divieto di proiezione, tagli più o meno lunghi, significano per i produttori perdite molto sensibili.
Per i primi, dunque, il film è un’occasione di più per insistere in una campagna che nella loro patria d’elezione, quali che ne siano i corsi e i ricorsi, sarebbe, non diciamo impossibile, ma neppur concepibile perché il materialismo dialettico, fa un dovere tassativo, a quanti lomprofessano, di militare e combattere in tutti i modi, fino all’effusione del sangue, contro l’«oppressione capitalista». I predicatori della non resistenza in una simile cornice commetterebbero un reato perseguibile a norma di codice penale con estrema severità.
Per gli altri, la pellicola offre un’occasione propizia per insistere, con buona probabilità di prevalere di prevalere, in una battaglia già in corso da tempo, contro gli intralci che si frappongono alla libertà o alla licenza del mercato cinematografico.
Tutti, poi, come si è detto, credono di aver buon gioco nel giustificare la loro campagna con i diritti della cultura e quelli inseparabili, della cosidetta «libertà d’espressione».
Per quel che ci riguarda, ci siamo limitati a smentire, giorni or sono, che il film francese di cui tanto si discute abbia riscosso l’approvazione del Centro Cattolico Cinematografico.
In questi giorni, però, alcuni fogli hanno pubblicato parti della sceneggiatura e con nostra viva sorpresa abbiamo visto che, nella loro apologia dell’obiettore di coscienza, gli autori, con un gioco di contrapposizioni fin troppo trasparente, han creduto di dover diffamare la morale cattolica, il sacerdozio, la Chiesa.
Alla figura idealizzata di chi ricusa – in tempo di pace – il servizio militare e le armi, perché in coscienza non crede di poter uccidere neppure per difendersi, corrisponde quella di un seminarista soldato, il quale – in guerra – ha eseguito l’ordine dal suo maggiore di uccidere un prigioniero inerme e si sente tranquillo in coscienza, confortato dai suoi superiori ecclesiastici, perché ha obbedito ad un comando cui non poteva sottrarsi. I giudici militari, condannano il primo e assolvono il secondo.
Un sacerdote, un «prete operaio», che depone a favore dell’«obiettore» e per la Chiesa diviene una specie d’imputato incoerente, affidato al giudizio negativo del pubblico. Il giovane condannato dal tribunale a termine di legge, alla fine dice di voler abbandonare il cattolicesimo. Gli spettatori lo assolveranno.
Noi non sappiamo se casi del genere siano realmente accaduti. Sappiamo però che cattolici, preti e laici, a decine di migliaia, sono morti nei campi di concentramento o davanti ai plotoni d’esecuzione per fedeltà al messaggio di Cristo. E dovrebbero saperlo tutti.
Per quel che riguarda il seminarista che «esegue gli ordini» e viene assolto c’è da dire solo una cosa: il giuramento è un atto religioso e non impegna colui che lo presta ad agire contro Dio e la sua legge. Se un episodio come quello che il fil denuncia è avvenuto, si deve chiamare in causa non la morale cattolica, ma la debolezza umana. Un eroe avrebbe rifiutato di eseguire il comando affrontando, poi serenamente tutte le conseguenze del suo gesto.
Quanto all’«obiettore» si deve dire che, pur rispettandone i sentimenti e il rifiuto in quanto proiezioni di stati d’animo sinceramente soggettivi, il suo contegno, oggettivamente, non si giustifica fino a tanto, almeno, che nel mondo vi saranno ingiustizie e soprusi cui l’uomo ha il diritto di resistere.
Il film «Non uccidere», dunque, è un contesto di motivi polemici contro la morale cattolica, e la Chiesa; e all’offesa gratuita nulla toglie – anzi molto aggiunge – il valore artistico che, a quanto si afferma, il film avrebbe in grado elevato.
Non vogliamo entrare nella controversia della censura. Ma la pubblicazione di alcuni dialoghi, giudizi ed iniziative, anche di cattolici, ci fanno un dovere di rompere il riserbo per non avallare, col silenzio, un equivoco inammissibile. La calunnia ha sempre accompagnato la Chiesa nel suo cammino nella storia; ma non si deve credere che vi consentano i cattolici.
F.A. [Federico Alessandrini]
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