L’Osservatore Romano, 13 febbraio 1963
Un recente caso giudiziario ha proposto – o per meglio dire – ha riproposto anche in Italia la questione della cosiddetta «obiezione di coscienza». Si tratta, com’è noto, del rifiuto di prestare il servizio militare, in pace come in guerra, per motivi religiosi o semplicemente filosofici. Il problema, com’è ovvio, non si porrebbe se non vi fosse in quasi tutti i Paesi del mondo la coscrizione obbligatoria. In tal caso infatti andrebbe a fare il soldato solo chi ne avesse la voglia o la vocazione.
Vi sono, peraltro, alcuni Stati i quali, pur obbligando al servizio militare, ammettono l’obiezione di coscienza. Altri, invece, e sono i più, non la riconoscono e puniscono a norma di codice colui che rifiuta questo servizio anche se si appella a ragioni morali e religiose.
Il caso italiano recente si è chiuso con una condanna e l’episodio, come dicevamo dianzi, suscita discussioni e polemiche nelle quali si distinguono, come al solito, giornali e riviste di estrema sinistra i quali non hanno niente da eccepire allo stato di cose esistente nei Paesi cosiddetti socialisti ove il rifiuto del servizio militare non è neppure pensabile; ma lo difendono quando si manifesta nei Paesi «capitalisti» perché vedono nel fenomeno un nuovo indizio della dialettica interna che travaglierebbe un mondo condannato. Per affrettare la disgregazione, perciò, nulla di meglio che assecondare questi atteggiamenti di rifiuto che, in definitiva, sarebbero l’«istintiva» protesta contro un ordine «ingiusto».
Parlando del problema che l’episodio propone, non si vuol esprimere un giudizio sull’obiettore di cui, in concreto, si parla. La valutazione di stati d’animo soggettivi è infatti quanto mai ardua e, d’altra parte, non compete certamente a noi che scriviamo. La questione è di sapere se i pubblici poteri hanno o non hanno il dovere e il diritto di punire queste renitenze a termini di legge quale che ne sia la ragione soggettiva che la provoca.
Un collaboratore dell’Avvenire d’Italia, Filippo Franceschi, fa osservare:
«Senza dubbio ciascuno deve obbedire alla sua coscienza e fare quel bene che, dopo una ricerca sincera, la coscienza gli detta. Ma ci sono dei principi morali che ciascuno deve conoscere, e nessuno può fare appello alla coscienza per trasgredirli. Che se poi qualcuno si trova nell’errore in buona fede, egli ha il diritto e il dovere di obbedire alla coscienza. Ciò tuttavia non impedisce che la comunità e l’autorità che la ordina abbiano l’obbligo di opporsi a questi atti al fine di evitare funeste conseguenze. Di qui dolorosi conflitti: quello dell’obiettore di coscienza è solo uno dei tanti. Rimane però per me evidente come, nel caso concreto, non si possa negare alla autorità, richiamandosi alla legge, il diritto e il dovere di opporsi: ed ognuno è tenuto a vedere le ragioni della legge. Se affermassimo semplicemente la assoluta libertà della coscienza, senza riconoscere che essa deve essere educata e illuminata alla luce del vero (e tale è appunto anche il ruolo della legge), noi scivoleremmo verso forme di soggettivismo morale, lesivo di ogni ordine morale, della stessa società e, in ultima analisi, della coscienza stessa. Ciò sarebbe ovviamente contrario al bene della persona umana, il cui naturale ambiente di crescita e di sviluppo è appunto la comunità».
È evidente, peraltro, che l’autorità civile non avrebbe il diritto d’imporre ai cittadini cosa contraria alla loro coscienza oggettivamente retta. Le origini stesse del cristianesimo e le persecuzioni dei primi secoli sono legate al rifiuto dei cristiani di tributare ai Cesari il culto che è dovuto soltanto a Dio. I Romani comprendevano questa esigenza quando era legata alle consuetudini di un popolo geograficamente localizzato; proprio per questo ammettevano che gli Ebrei, cioè gli abitanti di una provincia dell’Impero, ben definita, sacrificassero a Dio per Cesare. Ma consideravano reato di lesa maestà il fatto che persone di fede non giudaica si rifiutassero al rito richiesto a tutti i sudditi di Roma.
Alcuni Stati che, di recente, hanno introdotto la coscrizione obbligatoria, riconoscono la legittimità dell’obiezione di coscienza perché vi sono comunità religiose, le quali proibiscono ai loro membri di prestar il servizio militare. Questo riconoscimento, perciò, è legato al rispetto della libertà della coscienza. Nel caso proposto dall’episodio di cui si parla, il problema che si pone è, dunque, di sapere se la professione di fede cattolica impegni in coscienza a rifiutare il servizio militare. C’è chi risponde di sì, richiamandosi agli orientamenti di alcuni teologi i quali, alla luce delle tremende realtà nuove, mettono in discussione il concetto tradizionale di «guerra giusta».
Un collaboratore del settimanale torinese «Il Nostro Tempo», per esempio, scrive:
«In seguito a questi sviluppi del pensiero cattolico sulla guerra moderna, anche il problema dell’obiezione di coscienza va meglio definendosi nell’opinione pubblica. Per il momento, la materia rimane nell’ambito dell’opinabile, e infatti differenti riviste cattoliche continuano ad avere pareri divergenti. Tuttavia mi pare non sia indispensabile condividere il punto di vista dell’obiezione di coscienza per ammettere il diritto al riconoscimento giuridico degli obiettori di coscienza: si può anche dissentire dalle loro tesi ma è legittimo e doveroso consentire un comportamento che risponde ai dettami della loro coscienza, purché non contrasti con i fondamentali obblighi della convivenza sociale (gli obiettori di coscienza non rifiutano un periodo di servizio civile, un servizio comunitario a favore della società, ma il servizio militare)».
Qui – ripetiamolo ancora una volta – non si tratta di esprimere un giudizio sulla responsabilità soggettiva di certi atti perché nessuno può pretender di conoscere quel che avviene nell’altrui coscienza e di valutare le intenzioni dei suoi fratelli. Ma, detto ciò, non si può non osservare che il magistero morale della Chiesa non è suscettibile d’interpretazioni soggettive o individualistiche e che, all’atto pratico, le meditazioni di alcuni teologi non hanno ancora modificato la dottrina tradizionale sulla liceità della guerra giusta e della prudente difesa. Ciò significa che, a differenza di quel che avviene per i seguaci di certe denominazioni religiose, il cattolico che rifiuta il servizio militare può appellarsi, non già all’insegnamento morale oggettivo della Chiesa, ma ad interpretazioni soggettive.
Si potrebbe infine osservare, a titolo personale, che la guerra moderna, sempre più «totale» – secondo il gelido linguaggio dei teorici e la tragica esperienza che tutti abbiamo fatto – rende puramente illusoria la convinzione che, non impugnando le armi o non vestendo un’uniforme, ci si liberi da una responsabilità insopportabile. Oggi, nel caso deprecabile di un conflitto, si contribuisce alla morte dei nostri fratelli anche continuando le normali occupazioni del vivere civile, perché la ferrea legge della comunità sociale finisce per costringerci anche a nostro malgrado. Bisognerebbe rifugiarsi in una nuova Tebaide, lontano dagli uomini e dal consorzio civile. Mentre invece la sola via che è aperta avanti a noi è di operare al posto che ad ognuno compete, perché il grande flagello della guerra sia risparmiato al genere umano.
Federico Alessandrini
visualizza in PDF: L’Osservatore Romano 13-02-1963