L’obiettore di coscienza

La Stampa, domenica 20 gennaio 1963

 

Il problema degli obiettori di coscienza è tornato alla ribalta, e questa volta con una insolita risonanza nell’opinione. Il recente processo contro il cattolico Giuseppe Gozzini, le vivaci polemiche tra gli stessi cattolici fiorentini – che hanno tirato in ballo i Padri della Chiesa e gli ultimi Pontefici -, le lettere a questo giornale, che hanno ricordato esempi stranieri e suggerito qualche soluzione, tutto questo risveglio di appassionati dibattiti non sembra destinato a cadere nel vuoto.

In questa materia, appellarsi alle tradizioni, ai principi, alle supreme istanze della storia e della morale, come si è fatto anche troppe volte in passato, non è difficile, ma non sembra la via più urgente ed efficace. Ai cattolici che adducono alcuni passi di San Tomaso e di encicliche papali sui doveri dell’obbedienza all’autorità politica e militare, è facile opporre che la Chiesa annovera, fra i suoi Santi, molti autentici obiettori di coscienza, che preferirono il martirio al giuramento di fedeltà all’Imperatore, e ha più volte difeso ed esaltato l’incoercibilità della coscienza, di fronte a qualsiasi potestà terrena.

Anche in campo laico non mancano le opposte rivendicazioni di principio. Già Voltaire aveva posto in luce, nelle Lettere Filosofiche del 1734, il nobile rifiuto dei quaccheri a portare le armi in guerra: «Alla guerra non andiamo mai non per timore della morte, ma perché non siamo né tigri né lupi né mastini, ma uomini e cristiani… Noi piangiamo in silenzio su quegli assassini che suscitano la pubblica allegrezza». E durante la rivoluzione francese, un decreto del Comitato di Salute Pubblica aveva esonerato dal servizio militare gli anabattisti, «cittadini ai quali il loro culto e la loro morale interdicono di portare le armi».

Ma proprio la rivoluzione francese, con la nozione di cittadino – soldato ereditata dalle dottrine settecentesche dei primi grandiosi esperimenti di levée en masse, aveva proclamato l’assoluto dovere di tutti di impugnare le armi in difesa della patria. E questo principio del cittadino – soldato come tutti sanno, più tardi si esasperò e si corruppe, fino alle degenerazioni (per restare a casa nostra) degli otto milioni di baionette e di una legislazione oppressiva che reclutava tutti i cittadini a partire dal compimento dell’ottavo (!) anno di età. Scomparso questo aspetto operettistico del sistema, il principio fondamentale della coscrizione obbligatoria mantiene ancora non poco della mitica e augusta intangibilità di un tempo.

Lasciamo dunque da parte l’infido terreno delle teorie e dei sentimenti generali – del resto, gli stessi avversari della obiezione di coscienza, oggi in Italia, non tanto si ispirano a ragioni di principio, quanto sono dominati – lo confessino meno – da preoccupazioni pratiche. Alla radice di questa loro avversione c’è, più di tutto, l’antico scetticismo sul carattere civile degli italiani, considerati troppo furbi e troppo poco solleciti dei fatti di coscienza per non volgere a proprio profitto il diritto di obiezione, il giorno in cui questo fosse riconosciuto dalla legge.

Questo acuto rilievo è stato fatto da Ignazio Silone, nella prefazione di un opuscolo diffuso in questi giorni dalla Associazione italiana per la libertà della cultura, che si intitola «Per una legge sull’obiezione di coscienza». Il pregio del volumetto, che raccoglie i pareri di alcuni tra i nostri migliori giuristi e uomini di cultura, sta proprio secondo noi, nell’abbandono di ogni disquisizione astratta, e nella ricerca precisa delle forme e dei limiti entro i quali potrebbe essere dato ingresso, nella situazione storica in cui viviamo, a un riconoscimento giuridico dell’obiettore di coscienza.

I tempi sono maturi perché si faccia qualcosa di serio. Troppi ormai sono i casi 41 giovani (testimoni di Gehova, o cattolici, o assertori della non-violenza) che, espiata una prima condanna, e perseverando nel loro rifiuto, sono condannati una seconda e una terza volta, con la prospettiva – che sarebbe ridicola se non fosse tragica – di una ininterrotta catena di condanne e di incarcerazioni fino al compimento del cinquantacinquesimo anno di età.

Questo stato di cose è tanto più assurdo, se visto sullo sfondo di un grande fenomeno storico che si sta svolgendo sotto i nostri occhi: la trasformazione tecnica dei mezzi bellici, che esige sempre di più l’altissima specializzazione dei pochi e riduce e quasi annulla l’importanza delle grandi mobilitazioni di massa. Di fronte a questa realtà d’oggi, che senso ha lo spietato accanirsi contro questi pochi obiettori di coscienza (che nella loro quasi folle abnegazione preannunciano il mondo di domani)?

Due sono le vie possibili per giungere a una tutela giuridica dell’obiezione di coscienza: a) il riconoscimento, in via diretta e soggettiva, della qualità di obiettore nel singolo che dichiara di opporsi, per ragioni di coscienza, alla prestazione del servizio militare; b) un riconoscimento indiretto e oggettivo, mediante la concessione a tutti i cittadini di leva di una libera scelta alternativa fra la prestazione del servizio militare e la prestazione di un servizio civile non armato.

Fra le due soluzioni, noi propendiamo per la prima. La seconda ci pare meno realizzabile, perché, con la possibilità offerta a tutti i cittadini di scegliere liberamente fra un servizio armato e un servizio disarmato, rischierebbe di scardinare tutto il nostro assetto di difesa militare, e involgerebbe la necessità di una profonda riforma di strutture assolutamente sproporzionata alla esigua entità del problema dei non molti obiettori di coscienza. Non dobbiamo inoltre dimenticare che per l’art. 52 della Costituzione la difesa della patria è «sacro dovere del cittadino», e «il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge».

Invece, una legge che riconoscesse, in casi determinati, l’obiettore di coscienza, non urterebbe contro il dettato costituzionale, in quanto tale riconoscimento eccezionale rientrerebbe (così come le disposizioni già vigenti per i chierici) nei limiti e nei modi stessi che accompagnano l’obbligatorietà, sancita dalla Costituzione in via generale, del servizio militare.

Le complicazioni e i dubbi sorgono piuttosto sul preciso assetto legislativo da dare alla prima delle due soluzioni. Il diritto all’obiezione dovrebbe riconoscersi solo in via eccezionale. Le ragioni dovrebbero essere vagliate con rigore; ma non potrebbero essere ristrette al solo ambito religioso Escluderemmo dal riconoscimento l’obiettore che si richiamasse a sole ragioni politiche. Delicatissimo è il problema di come dovrebbero essere composte le commissioni esaminatrici; burocrati e militari non dovrebbero prevalervi. Il servizio sostitutivo (sanitario o di altra natura) dovrebb’essere serio, continuativo e anche gravoso, di durata superiore a quello militare.

In ogni caso, si dovrebbe senza indugio porre termine al grottesco e inumano sistema attuale che costringe un cittadino, colpevole solo di un’assoluta coerenza morale, a una carcerazione più che trentennale. La stessa Francia di De Gaulle, che non è certo un paese antimilitarista, ha ridotto il periodo massimo di detenzione a cinque anni.

Eliminiamo, per prima cosa, questo obbrobrio legislativo. Ma poi affrontiamo, una buona volta, il problema dell’obiezione di coscienza. Cerchiamo di non arrivare anche qui, come troppo spesso succede, buoni ultimi, per la solita mancanza di coraggio o la solita sovrabbondanza di retorica.

 

Alessandro Galante Garrone

 

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