Avvenire, 11 marzo 1999
La proposta del ministro della difesa (del governo?) di abolire la leva obbligatoria e di passare a un esercito di professionisti sta facendo discutere e raccoglie larghi consensi. Tra le forze politiche, dentro e fuori la maggioranza, quasi tutte orientate a mandare in soffitta la naia. Ma il consenso maggiore è presso l’opinione pubblica: la prospettiva di evitare dieci mesi di servizio alla Patria trova concordi i giovani e ancor più le loro famiglie. Soprattutto se si offre loro la prospettiva di una “tassa in natura” da abolire (anche perché le altre tasse, quelle in denaro, non si riesce nemmeno a ridurle).
Dalla lettura degli atti parlamentari (unico atto ufficiale di cui disponiamo), la proposta del ministro della difesa appare ancora generica e poco precisa su vari piani: quello dei compiti che alle nostre Forze Armate verrebbero affidati con la loro professionalizzazione (si pensa forse d’impiegare i “professionisti” per presidiare il palazzo di giustizia di Palermo o per spalare fango in occasione di qualche alluvione?); quello quantitativo (le “nuove” forze armate sarebbero solo di qualche migliaia in meno rispetto a quelle previste dal governo Prodi); quello economico (400 miliardi in più per ciascuno degli anni di transizione dall’attuale esercito a quello completamente professionale significano 2.800 miliardi per la sola transizione), con i risvolti sul mercato del lavoro.
Quel che più colpisce, tuttavia, è l’assenza completa dal dibattito di un quadro culturale più ampio. Si dà per scontata l’adesione a quel nuovo modello di difesa proposto sin dal 1991, ma mai compiutamente discusso e approfondito nei vari parlamenti che da allora abbiamo eletto o confrontato con chi sta al di fuori del “palazzo”. E ciò vale anche per i compiti che le forze armate dovranno assolvere. E’ come se mancasse, in questo dibattito, la ricchezza di un confronto che fu proprio dei padri costituzionali allorché dovettero scrivere l’articolo 11 o l’articolo 52 (quello della sacra difesa della patria) della nostra carta fondamentale.
La riforma della leva, invece, può configurarsi a ragione come una vera e propria riforma istituzionale, di cui il nostro Paese dovrà comunque dotarsi.
Se si rinuncia a discutere di questi principi si corre il rischio che le scelte operate possano essere parziali o monche. E qui entra in gioco il servizio civile. Certo, se la leva militare obbligatoria fosse abolita sparirebbe anche l’obiezione di coscienza a quell’obbligo e dunque la possibilità di accesso ad un servizio civile sostitutivo. Secondo qualcuno questo sarebbe il motivo per il quale gli enti convenzionati che impiegano attualmente obiettori sarebbero contrari al progetto del ministro, cioè i veri grandi oppositori alla modernizzazione del nostro esercito.
Può sembrare perfino banale ricordare che molti degli enti che accolgono obiettori esistevano ancor prima del 1972 (anno in cui è stato introdotto in Italia il servizio civile) e che sopravviveranno al 2007 (anno in cui il ministro preconizza l’avvento del nuovo esercito). Così come altrettanto banale è la considerazione che, a torto di quanto in genere si pensi, il servizio civile non è solo affar dei privati o del privato-sociale, dato che dei circa 5.000 enti convenzionati, oltre la metà sono Comuni, Ministeri e Asl, insomma pubblica amministrazione.
Ha ragione il ministro della difesa quando sostiene che il servizio civile non è più competenza della difesa, ricordando in fondo quello che già la nuova legge sull’obiezione di coscienza (approvata nel giugno scorso e non ancora applicata) ha sancito con la smilitarizzazione del servizio civile. Ecco perché, a questo punto, occorre che ad esprimersi sia direttamente il Governo nella sua globalità.
Andrà spiegato, ad esempio, come si concilia la proposta del ministro della difesa con la creazione, proprio in queste settimane, del nuovo ufficio a Palazzo Chigi che dovrà gestire il “nuovo” servizio civile. Ma soprattutto andrà detta una parola chiara su quello che l’istituto della leva obbligatoria, così come si è andato evolvendo finora (e dunque con i suoi 140.000 giovani che entrano in caserma e i suoi 70.000 che obiettano), debba ancora rappresentare oppure no.
Se la crisi del servizio militare è sotto gli occhi di molte generazioni di giovani italiani, non significa che il principio sul quale esso si fonda (il diritto-dovere di difesa della patria) debba essere messo in discussione e non debba trovare migliore concretizzazione. Parimenti, se il dovere di solidarietà sancito dall’articolo 2 della costituzione non vuol ridursi al mero obbligo di pagare le tasse, allora bisognerà considerare la prospettiva di un con-tributo che ciascun cittadino può e deve alla sua comunità. Insomma, le ragioni che hanno fatto nascere e crescere il servizio civile da un quarto di secolo possono contribuire a quel nuovo patto tra stato e cittadini di cui il nostro Paese ha bisogno. A patto che il dibattito sulla leva spicchi un salto di qualità.
Diego Cipriani, presidente Cnesc
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