Il Messaggero, giovedì 2 ottobre 1986
Il Ministro Spadolini riferendo mercoledì 24 alla competente Commissione del Senato sul problema della riforma della leva, ha affermato che un provvedimento di modifica delIa normativa è·«pressante».
Il giorno seguente alla sua dichiarazione, si registravano, nella caserma «Gonzaga» di Sassari e nel carcere militare di Peschiera del Garda (Verona) altri due suicidi di militari. A questi si è aggiunto quello del colonnello Wladimiro Nesta, con tutta la polemica che ne è seguita. Sale così a 14 il numero dei suicidi nei primi nove mesi dell’86; più di tutti quelli segnalati nell’intero 1985. Negli ultimi 7 anni il numero dei suicidi nelle caserme è raddoppiato rispetto agli anni precedenti passando da2,9 a 5,8 ogni centomila arruolati.
I cinque punti della proposta di riforma Spadolini non affrontano il tema centrale del malessere dei militari che è un fenomeno diffuso e non riconducibile a pochi casi di persone psichicamente labili, collegato com’è alla condizione giovanile e ai mutamenti rapidi e profondi degli ultimi decenni, di fronte ad una struttura militare che è rimasta quella del passato, nella sostanza e nella forma.
In concreto, i giovani cresciuti nel senso critico e nella maturazione culturale – da molti anni la maggiore età è scesa giuridicamente a 18 anni – si impattano in una struttura autoritaria, nella quale gli ordini si eseguono e non si discutono; abituati ad interrogarsi sul significato sociale delle scelte che fanno, vengono costretti ad un’esperienza di esercitazione alla «difesa militare» nella cui efficacia e significatività molta parte dell’opinione pubblica pone oggi seri dubbi; per non parlare dei riflessi personali della «naia», che risulta superflua ai più in termini di arricchimento personale, di scambio di culture, di preparazione professionale alla vita.
Una riforma vera non può limitarsi a ridurre a 12 mesi per tutti il periodo di ferma, ad allargare il servizio militare alle donne, né ad istituire un controllo psichico di idoneità. Esso deve partire prioritariamente, meno dalla preoccupazione di salvare in ogni caso la struttura del servizio militare popolare e più dalla preoccupazione di rispondere alla domanda se tale servizio abbia un senso per i giovani di oggi, se li aiuti a crescere in umanità, se li renda meno violenti, più aperti agli altri, più attenti alle fascie deboli della società in cui vivono e del mondo. Diversamente si cade nella logica di sacrificare l’uomo alle strutture.
Per capire quanto poco esista questa attenzione all’uomo, è sufficiente osservare il trattamento riservato oggi dal ministero della Difesa agli obiettori di coscienza. Tra essi – è noto – ci sono dei profittatori: per liberarsene, lo Stato non ha trovato di meglio che allargare il periodo di «ferma» di otto mesi rispetto ai militari di leva; di prolungare il periodo utile per il riconoscimento dello «stato» di obiettore da sei mesi prescritti dalla legge a 13 mesi, ai quali vanno aggiunti 4-5 mesi per la destinazione ad un ente determinato; soprattutto di decidere disciplinarmente e autoritativamente dove il giovane debba fare il servizio civile, a prescindere totalmente dalle sue attitudini e dalla sua preparazione e dai bisogni reali del territorio, dove egli compirà il servizio. C’è l’impressione che l’obiettore venga trattato press’a poco come un «oggetto» scomodo e recalcitrante, da collocare in una qualunque modo, purché non disturbi. Questa è una logica che fabbrica disadattati, anziché edificare persone.
Allora è il momento di avviare una riforma che, da una parte salvi l’esigenza di avere un esercito su base «popolare» che i più sembrano ritenere ancora necessario, e dall’altra renda il giovane protagonista in un momento così importante della sua vita.
La proposta è di creare un servizio sociale obbligatorio per tutti i giovani, uomini e donne, alternativo al servizio armato, da esplicare nei campi dove più urgente è l’intervento dello Stato: dai servizi socio-assistenziali per anziani, handicappati, minori abbandonati, tossicodipendenti, ecc. a quelli di tipo sanitario, agli interventi nella protezione civile, nella difesa dell’ambiente, nella salvaguardia del patrimonio storico-artistico.
Ai giovani dovrebbe essere data la possibilità di scegliere anche secondo le proprie attitudini tra il servizio «armato» e il servizio sociale. A tutti rimarrebbe l’obbligo di un servizio alla Patria, intesa anzitutto come comunità di uomini, legati tra loro da vincoli culturali, giuridici, storici.
Questo impegno sociale generalizzato è in sintonia con il dettato costituzionale che impone la difesa della Patria come dovere per tutti i cittadini. Secondo la sentenza della Corte Costituzionale del 24 maggio 1985, tale dovere inderogabile di solidarietà politica non si esaurisce nella difesa armata, ma si attua anche attraverso la prestazione di «adeguati comportamenti di impegno sociale non armato». Ma, soprattutto, esso è in sintonia con l’impegno di aiutare i giovani a ricuperare il senso di appartenenza alla società, di responsabilità nei confronti degli altri cittadini, superando la tentazione della chiusura e del ripiegamento su se stessi, di cui i numerosi casi di suicidio sono il sintomo più drammatico.
Tale esperienza trova oggi spazio solo nel «Volontariato internazionale» e nell’anno di volontariato sociale, che molte ragazze vanno sperimentando in Italia a titolo gratuito come introduzione alla vita sociale. Si tratterebbe di estenderlo a tutti i giovani, uomini e donne, abili alle armi e non abili.
Una prospettiva di servizio sociale alternativo pone numerosi problemi di carattere giuridico, strutturale, culturale: vale la pena di affrontarli se la posta in gioco è la edificazione di una società futura aperta alla giustizia e alla pace, ma soprattutto fondata sui cittadini come reali protagonisti.
Giuseppe Pasini, Direttore della Caritas Italiana
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