La Consulta e l’obiezione

La Repubblica, venerdì, 18 agosto 1989 – pagina 10

 

E così, con la sentenza della Corte costituzionale, muore in Italia l’obiezione di coscienza. Posso ricordarne le origini con Pietro Pinna, il primo che in Italia sfidò la tradizione del paese, forte dell’insegnamento di uno dei rari pensatori religiosi nella cultura laica italiana di questo secolo Aldo Capitini. Le origini inglesi e quacchere del rifiuto di obbedire per un motivo di coscienza pur non contestando la legge non sono state recepite nel nostro paese.

Eppure il primo ad usare le parole della disobbedienza per ragioni di coscienza, fu un santo cattolico e martire Tommaso Moro. E lo fece per evitare di accusare di eresia il suo re Enrico VIII obiettò, ma non disse che alla fine i motivi dell’obiezione. Volle morire, come disse prima di essere decapitato, fedele suddito del re ma soprattutto di Dio. Questa mi sembra la prima obiezione di coscienza, messa in forma da non offendere chi si contestava (e poteva anche uccidere) ma tale da porre sopra i propri obblighi sociali la fedeltà all’ispirazione interiore.

La parola obiezione di coscienza è diventata poi comune in Italia ed appare come un’espressione dubbia quando viene usata dagli operatori sanitari per riversare solo su alcuni colleghi il peso di compiere gli aborti. Quella al servizio militare è diventata ormai solo uno spazio di comodo un atto di prestigio sociale. Essa è avanzata per il 35 per cento da giovani laureati e per il 25 per cento da giovani diplomati.

Cito una esposizione del problema, che mi pare assai convincente, fatta da Lapo Pistelli, un giovane dirigente democristiano sulla rivista fiorentina Testimonianze L’ obiettore ha un soldo più alto, perché l’ente spesso non mette a disposizione né vitto, né alloggio, né vestiti. Sarebbe curioso chiedere ai militari di leva se preferiscono dormire a casa, non mangiare a mensa o vestire in borghese… è sotto gli occhi di tutti che sindacati, associazioni ricreative, enti locali hanno avuto negli anni scorsi coperture scandalose per convenzioni grazie alle quali violano permanentemente la legge utilizzando gli obiettori in sostituzione del personale pagato. Il volontario organizzato, come quello dell’Arci, delle Acli, della Caritas etc. ha ormai imparato che niente dà più solida consistenza al volontariato che l’uso di giovani precettati dallo Stato in nome della leva.

La maggior durata della vita fuori caserma è ormai abolita dalla Corte, quindi l’unico sforzo che i non armati dovevano fare non ha più ragion d’essere. La sentenza della Corte ha preoccupato le associazioni del volontariato istituzionale, cioé protetto da istituzioni, in particolare la Chiesa, i sindacati, i partiti perché si sono visti ridurre, con i tempi della ferma, anche la loro quota di personale obbligato e non pagato.

Dobbiamo alla Corte il merito di avere tolto di mezzo la parola coscienza. Ma anche qui, come nel caso degli obiettori all’aborto, essa ha dovuto dar vita ad un’autoesenzione del singolo dalla legge. Il cittadino italiano può, per qualsiasi motivo, esimersi da quello che l’articolo 52 della Costituzione, ripreso dal testo della Costituzione sovietica di allora, chiama il sacro dovere della difesa nazionale. E l’autoesenzione produce effetti durevoli. Mentre il giovane che compie gli obblighi di leva può ancora essere nello spazio di ventidue anni richiamato sotto le armi, il non armato non può nemmeno essere più precettato per il servizio civile.

È curioso il modo in cui la Corte ha risolto il problema del non armato siccome il secondo comma dell’ articolo 52 affida alla legge l’organizzazione della difesa nazionale, i giudici hanno ritenuto che, così come la legge esclude le donne o i riformati dal servizio militare, essa possa anche escludere coloro che semplicemente non lo vogliono fare. L’autoesenzione avviene sotto la copertura della discrezionalità amministrativa. Ci sarebbe pur qualcosa da osservare su questo punto.

Lo Stato nazionale e la democrazia continuano la forma politica del libero autogoverno della polis greca e per questo hanno sempre mantenuto l’unità di cittadino e di soldato. L’alternativa erano le compagnie mercenarie o le servitù feudali. Perdere questa connessione non significa aumentare la qualità civica della vita nazionale. Solo lo Stato nazionale può raggiungere l’unità europea società disgregate dalla forza di un vincolo civile e politico degradano verso l’impotenza e verso l’insignificanza. Non è un caso che, mentre diminuiscono il senso e la forza dell’esercito, aumenti quella della polizia. Le varie polizie italiane raggiungono i 300 mila uomini, contro i 350 mila delle forze militari. E l’uomo delle forze dell’ ordine ha un status economico e civile ben diverso da quello del militare. Egli dispone di un vero potere e anzi di un crescente potere. È forse per questo che il livello civile dei corpi di polizia decade e assistiamo a fatti di degenerazione a livello di base che ormai sono troppo frequenti per essere episodici.

Proprio per la concorrenza della polizia è impossibile tentare in Italia l’esercito di carriera. Su 60 mila posti messi a concorso, solo 5 mila sono stati coperti. Essere carabinieri, finanzieri o poliziotti attira molto di più che essere militari. E, con tutto ciò, sentiamo dire, da chi è proposto al compito di lottare contro le associazioni malavitose, che in Sicilia, in Calabria, in Campania la sovranità nazionale è limitata dalla mafia, dalla camorra e dalla ‘ndrangheta.

La sentenza della Corte ci offre la speranza che finisca la pacchia del volontariato obbligatorio e si crei in Italia un vero servizio di protezione civile. Ma occorre ricordare che i nostri ex obiettori avevano anche obiettato a divenire vigili del fuoco il che non comporta l’uso delle armi. La sentenza della Corte non è splendida, ma almeno dice pane al pane e vino al vino. E toglie all’autoesenzione dal servizio militare lo splendore della libertà e della coscienza.

 

Gianni Baget Bozzo