Il Secolo d’Italia, domenica 22 giugno 1986
Fra obiettori di coscienza e ministero della Difesa è dunque, se non proprio guerra, tempo almeno di scaramucce; per il momento solo verbali. Dopo un periodo di reciproco fair play, da cui a trarre i maggiori vantaggi erano stati, come ovvio, proprio coloro che di non dedicare al servizio della Patria, in armi, un anno della propria vita si sono fatti un vanto, è giunto il momento dei contrasti. Contrasti – è il caso di specificarlo – tutt’altro che immotivati.
I termini della questione si possono sintetizzare rapidamente così. La legge che riconosceva il principio dell’obiezione di coscienza attribuisce a quanti desiderano usufruire di tale possibilità il dovere di svolgere un periodo di servizio civile sostitutivo, più lungo di circa la metà rispetto al corrispondente periodo di servizio militare, in lavori di pubblica utilità. Senza tuttavia, come è del resto logico per una legge, che si limita a fissare dei principi di carattere più o meno generale, stabilire quali. In un primo tempo – anche per merito di un ministro della difesa discusso e discutibile, ma che in materia di obiezione di coscienza aveva capito molte cose – il principio venne interpretato in maniera quanto meno restrittiva, precettando gli obiettori nel corpo dei vigili del fuoco. In tal modo venivano risolti due problemi tutt’altro che trascurabili: veniva infatti assicurata ai giovani obiettori un’occupazione decorosa, socialmente utile e senza dubbio formativa. E, al tempo stesso, s’impediva che la scelta dell’obiezione – scelta morale o religiosa senz’altro opinabile, ma dignitosa – finisse per trasformarsi in un comodo salvacondotto per quanti volessero risparmiarsi le fatiche e i disagi del servizio di leva.
Con l’andare degli anni, però, la situazione è profondamente mutata: gli obiettori di coscienza hanno infatti cominciato ad essere utilizzati per una serie di impieghi tutt’altro che disagiati; anzi per molti di loro il servizio ha finito per risolversi in una sorta di sinecura nei paraggi di casa. Alcuni sono stati comandati presso la Charitas, l’organizzazione assistenziale cattolica, e fin qui ci sarebbe poco da eccepire; ma la maggior parte ha finito per essere comandata presso organizzazioni parapolitiche presso le quali ha finito per attenderli una vista assai meno disagiata di quella che avrebbero dovuto affrontare sotto le armi, e nella quale spesso hanno finito per continuare, a spese del ministero della difesa, che ne pagava il vitto e la «decade», la militanza ideologica di pacifisti. Patronati sindacali, sezioni dell’Arci, amministrazioni comunali (di quale colore è facile comprendere) si sono trasformate in un accogliente ricetto per molti di questi giovani, favoriti da tale «beneficiata».
Finalmente, l’elevato aumento delle domande di obiezione di coscienza ha posto sull’avviso il ministero. Accortisi che qualcosa non andava, gli «uomini di Spadolini» hanno diramato alcune circolari opportunamente restrittive, che non limitano, sia ben chiaro, la possibilità di obiettare, ma evitano quel collegamento diretto fra obiettore ed ente presso il quale sarebbe stato «comandato» che ha assicurato a molti la possibilità di conciliare l’utile e il dilettevole, svolgendo servizio a pochi passio da casa e praticando in molti casi attività politica o parapolitica pagati – sia pure poco – con i soliti soldi di Pantalone.
Le proteste della organizzazioni degli obiettori non potevano mancare, ed infatti non sono mancate; per di più, nella questione già per conto suo scottante, si sono inserite alcune amministrazioni locali, naturalmente di sinistra. E’ il caso dell’amministrazione provinciale di Firenze che, in accordo con la Lega degli obiettori, ha diffuso – dopo averla stampata, ovviamente con denaro pubblico – una guida all’obiezione di coscienza destinata ad essere diffusa fra gli studenti delle scuole medie superiori. Un episodio, in sé gravissimo, che la dice lunga sulla reale consistenza di un patriottismo comunista sempre pronto a cogliere le migliori occasioni per sottrarre uomini alle forze armate della Nato.
In definitiva, l’insegnamento di questo ennesimo caso all’italiana è sin troppo evidente: nessuno mette in dubbio la liceità morale dell’obiezione di coscienza, ma – nell’interesse degli obiettori stessi, quelli veri – è necessario che essa sia una cosa seria e non una scorciatoia per figli di papà e raccomandati più fantasiosi degli altri. Fanno male perciò a protestare gli obiettori se un loro simpatizzante rischia di fare il servizio civile lontano da casa, mentre fa bene il ministero a evitare combines e arrangiamenti nemici della giustizia. Oltre tutto, è una questione di equità verso chi il servizio militare lo fa davvero, sobbarcandosi a sacrifici e pericoli minori forse di una volta, ma non indifferenti. Anche se, nella vita, è assai più «non violento» di molti pacifisti a senso unico che hanno scoperto di non voler imparare a fare la guerra soltanto quando si è trattato di impedire che la loro fidanzata, rimasta sola per il loro servizio militare, poteva essere tentata di imparare a far l’amore con qualcun altro.
Enrico Orsini
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