Il Giornale del Mattino, 13 gennaio 1963
La Chiesa ha sempre ripudiato il concetto enfatico di Patria introdotto nella comune mentalità soltanto dal paganesimo moderno, soprattutto nel periodo più acceso del nazionalismo che ha trovato il suo culmine nefasto nella ideologia fascista. Per la Chiesa l’autorità della patria viene a identificarsi con l’autorità di chi ha per legittimo incarico la responsabilità del bene comune; ed ha sempre insegnato che l’autorità pubblica trova un limite invalicabile nelle leggi morali: sorpassando quel limite l’autorità pubblica perde ogni valore per la coscienza del cittadino, pur restando leggi.
Esempio lampante, nella nostra storia più vicina, le leggi dello stato fascista contro gli ebrei e la dichiarazione di guerra contro l’Albania e contro l’Etiopia. In questi casi i cittadini che sono in grado di avvertire l’iniquità della legge hanno non dico il diritto ma il dovere di disobbedire. I primi cristiani sapevano affrontare il martirio quando la loro patria ordinava atti contrari alla loro coscienza. Che la contaminazione del nazionalismo abbia toccato larghi strati dell’opinione cattolica e purtroppo anche ecclesiastica è un dato di fatto che non ci rattristerà mai abbastanza.
Per quanto riguarda l’obbligo di obbedire alla Patria quando essa chiama alle armi, anch’esso è subordinato alla giustizia naturale. Se la guerra fosse non già un atto di solidarietà civile nello sforzo della legittima difesa ma un’evidente aggressione ingiusta (come le guerre fasciste e naziste o come recentemente l’aggressione cinese all’India) allora al cittadino incombe il dovere di farsi una coscienza il più possibile esatta del valore morale dell’ordine che riceve e se fosse convinto che esso contraddice alla giustizia naturale il suo dovere coincide con la disobbedienza. La Chiesa ha sempre adottato la nozione di «guerra giusta» e di «guerra ingiusta». Solo in questi ultimi tempi, cioè dopo l’invenzione delle armi nucleari, essa ha in maniera autorevole dichiarato che una guerra totale sarebbe inevitabilmente ingiusta. Il che significa che nel caso di una guerra totale i cattolici avrebbero non dico il diritto ma il dovere di disertare. Servirsi della riserva che il cittadino non può giudicare da solo sulla liceità della guerra significa dimenticare che siamo in un’epoca di democrazia cioè in un’epoca che, provvidenzialmente, lega in modo stretto l’opinione del privato cittadino e le decisioni del potere pubblico. La diserzione di un solo cittadino può assumere, per chiarezza di testimonianza, un valore decisivo.
È per queste ragioni che la Chiesa, mentre non ha nulla da rimproverare a chi, non dandosi per il momento la circostanza di una guerra ingiusta, accetta di indossare la divisa, non ha nulla da rimproverare a chi, secondo la propria coscienza, ritiene di assumersi il peso di testimoniare la sua volontà di pace rifiutando non già di servire la Patria ma di servirla indossando la divisa militare, che è pur sempre una divisa di guerra. Che forse la Chiesa, nello stipulare il concordato non ha chiesto per noi sacerdoti l’esenzione dal servizio militare in quanto contraddittorio con la nostra missione di sacerdoti ministri di pace? E perché avrebbe da obiettare contro chi, per sua personale convinzione, prova ripugnanza contro la divisa militare?
L’optimum per la Chiesa sarebbe che l’obbligo del servizio militare fosse sostituito con la volontarietà di quel servizio, salvo il caso, molto improbabile, di una guerra giusta, è cioè di una guerra di legittima difesa. E sarebbe anche desiderabile che una speciale legge fosse emanata. Come è avvenuto negli Stati più civili, a riguardo degli obiettori di coscienza. Tanto più che oggi il cristianesimo ci ha insegnato a mettere la coscienza al di sopra di ogni altro valore storico: quando in nome della Patria si spregiano gli scrupoli della coscienza e si oltrepassano i superiori limiti tra il giusto e l’ingiusto siamo già nel paganesimo. Motivo di più, questo, per avere un attimo di silenziosa ammirazione per coloro che a proprie spese testimoniano un’assoluta volontà di pace.
Più volte mi sono domandato: in nome di quale privilegio io sono stato esentato dal servizio militare, cioè dal morire nelle steppe della Russia dove sono morti molti miei coetanei? Non ho forse usufruito di una obiezione di coscienza istituzionalizzata? E perché avrei qualcosa da dire, oggi, contro chi da solo e a suo rischio obietta in nome della coscienza contro il servizio militare?
Ernesto Balducci