L’Osservatore Romano, 20-21 novembre 1961
Presentando a Firenze il film «Non uccidere» di Autant Lara, Giorgio La Pira, ai 700 privilegiati, nell’aula della Mostra Artigianale, ha precisato:
«Non mi fate esprimere giudizi. Io questo film, intanto, non l’ho ancora visto. E poi non vado al cinema da molti anni. L’ultimo film che ho visto fu “Biancaneve e i sette nani…”».
È una dichiarazione che dovrebbe aiutarci a spiegare l’inspiegabile: il credito cioè di un cattolico dell’autorità di La Pira a un film anticattolico. Ma era una condizione critica prudente? La Pira ha voluto affermare la libertà ad ogni costo per le opere intese a combattere la guerra: la libertà di esprimere ogni più avanzata opinione contro la violenza; ma il film intanto è avverso e ambiguo proprio verso coloro che della pace e dell’amore fanno la loro stessa dottrina, la loro stessa missione: i sacerdoti e la Chiesa. Occorre educare tutti i popoli ai principi della libertà e trasformare i carri armati in aratri. Ma i films che additano il complice delle guerre nella Chiesa cattolica, servono davvero la pace o disarmano gli spiriti fedeli a vantaggio di altri nemici autentici della pace?
Esaminiamo i fatti.
Nel contesto della sua cronaca, Il Messaggero finalmente trova modo di chiarire il carattere anticattolico del film, dicendo:
«I movimenti più drammatici del film, che per la verità è uno spiegato atto di accusa verso le classi militariste più agguerrite, ma anche verso la Chiesa, talvolta tiepida nei suoi interventi a favore della pace, sono stati sottolineati da scroscianti applausi».
La critica del Messaggero, cioè di un giornale che sostiene l’opera di Autant Lara, aiuta a chiarire che troppo parzialmente si è creduto sottolineare soltanto il problema degli obiettori di coscienza e non l’altra tesi presa a pretesto, cioè la pretesa ambiguità nella guerra della Chiesa. Chiesa e sacerdozio dipinti come incapaci di resistere alla violenza sia pure ammantata di legalità; e messi in contrapposto alla coerenza e fierezza dell’obiettore che abiura infine la Fede cattolica per «non uccidere».
Nessun giuramento di soldato obbliga invero a commettere atti palesemente contrari alla Legge di Dio e il caso del seminarista che per viltà uccide, sotto veste di «obbedire agli ordini», è un caso personale che non tocca la fede o la Morale nei suoi genuini precetti.
Ogni cattolico lo sa.
Si pone dunque un problema di opportunità della iniziativa fiorentina che non ha rapporto colla polemica sulla nota opposizione alle disposizioni governative contro il film. Il dibattito del principio costituzionale, esula qui dalle nostre considerazioni: ma si impone uno sguardo alla sostanza morale del film.
Per affermare, come ha sentito il bisogno di fare La Pira, «che la Chiesa è sempre stata contro la guerra», era il caso di convocare l’Italia intellettuale intorno a un film dove un inerme prigioniero è assassinato da un seminarista dopo aver cadenzato il «Padre nostro»; mentre giudici in Tribunale affermano a proposito della guerra, che nella Chiesa c’è tutto», cioè il pro come il contro; e ancora «queste cose la Chiesa doveva dire nel 1914 e nel 1939, non oggi»? Eppure questo sacerdozio cattolico che nel film di Autant Lara è meschino al punto da far dire: «Non ti accadrà niente; ai preti non accade mai niente»; è lo stesso sacerdozio che ha arrossato del suo sangue i patiboli o i campi di concentramento per sostituirsi ad altri condannati.
Il giudizio del Messaggero concorda con quanto scrivemmo nella nota «Nessun equivoco» (cfr. Osservatore Romano, sabato 18 novembre, di F.A.).
«Il film “Non uccidere”, dunque, è un contesto di motivi polemici contro la morale cattolica e la Chiesa… Non vogliamo entrare nella controversia della censura. Ma la pubblicazione di alcuni dialoghi, giudizi ed iniziative, anche di cattolici, ci fanno un dovere di rompere il riserbo per non avallare, col silenzio, un equivoco inammissibile. La calunnia ha sempre accompagnato la Chiesa nel suo cammino nella storia; ma non si deve credere che vi consentano i cattolici».
La «libertà di espressione» è per noi fuori discussione in ogni legittima sua creazione e per ogni arte degna di questo nome; ma in nome della stessa invocata libertà si impone ai cattolici una protesta non una apologia dell’opera calunniosa di Autant Lara. Questa apologia non l’ha pronunziata la Pira; ma indirettamente ha reso possibile degli equivoci. Non si può col silenzio e l’equivoco accreditare il sottinteso anticattolico di «Non uccidere».
«Se ci saranno da fare riserve su “Non uccidere”, di ordine morale o ideologico, le si farà. L’unica cosa che non potremo mai porre in dubbio è la sua libertà».
Così ha detto La Pira: ma la libertà che egli intende è quella della verità, non della falsificazione: a tacere dei molti altri problemi di principio connessi alla conclamata sostituzione del giudizio della coscienza soggettiva agli obblighi verso la comunità. Il problema per lo meno è arduo e molteplice; non si risolve a senso unico.
La polemica su Autant Lara – amplificata dai noti giornali – peraltro, non è che uno dei momenti di una più larga campagna che si va conducendo, dall’una all’altra parte, marxista o laicista, non contro questo particolare divieto di polizia, ma contro il principio stesso della revisione dei films e la recente Legge sulla censura modificata e revisionata al Senato ed ora dagli stessi settori avversata alla Camera. In questa legge all’esame, si sanzionano le sole manifestazioni contrarie «al buon costume»; ma tale identificazione non è neppur essa sopportata e la si vorrebbe minimizzare e svuotare, o meglio respingere con la intera Legge. Sappiamo, invece, quante insidie, quante piaghe la mercantile speculazione sensualistica e nichilista dei films rechi disastrosamente contro il costume e la morale comune. Che questo o quel caso di censura si sia prestato a dissensi, che i criteri di applicazione di questo o quel censore abbiano potuto peccare di formalismo, non è un motivo che giustifichi il rifiuto del principio e dell’istituto di vigilanza, l’uno e gli altri, operanti in tutti i paesi del mondo.
Vediamo ora coi premi distribuiti a Firenze a giornali oggi larghi di lodi ma fino a ieri tipici magari nell’ironizzare o criticare il Sindaco di Firenze, vediamo sembrare quasi incoraggiata una campagna che ferisce l’onesta ansia di difesa dei cattolici per il costume cristiano.
La unità di convinzione e di azione in questa battaglia è oggi essenziale per tutti gli uomini responsabili.
E non tocchiamo di altri problemi sollevati dalla stampa che ha applaudito a Firenze. Noi ci limitiamo a considerare la posizione degli umili fedeli che coscienziosamente considerano le norme del Centro Cattolico Cinematografico, voluto dalla Chiesa, e su di esse regolano coerentemente la loro condotta.
C’è un ordinamento positivo della Chiesa (in questo caso il Centro Cattolico Cinematografico): fino a che punto è utile non annettervi importanza?
«Avrò delle grane», ha avvertito La Pira, ma non è dello spirito di sacrificio nel sopportare immeritate molestie che qui si vuol discutere! È del bene delle anime che non vediamo come si possa perseguire con opere artistiche ambigue. Bisogna «non uccidere» sì; non uccidere anche la chiarezza delle fondate comuni convinzioni.
r.m. [Raimondo Manzini]
visualizza in PDF: L’Osservatore Romano 20_21-11-1961