Avvenire, 4 dicembre 1992
Dopo l’ubriacatura televisiva che abbiamo dovuto sorbirci qualche giorno fa sulla vita di caserma sperimentata (per 36 ore!) da un gruppo di donne, qualche riflessione più generale sull’evoluzione della politica di difesa dei nostro Paese s’impone.
Diciamo subito che non ci convince una “parità” fondata sulla forza e l’aggressività. Pur non condividendo la teoria che vorrebbe la donna “naturalmente” nonviolenta e così angelizzata dal non ritenerla adatta a usare il fucile, non crediamo che l’entrata delle donne in caserma sia una tappa inevitabile dell’evoluzione della specie umana.
In altri termini, avremmo preferito restare la Cenerentola dell’Europa in questa materia, certi che l’unità del vecchio continente non ne sarebbe stata irrimediabilmente compromessa. Ma l’avventura delle nostre prime trenta amazzoni porta con sé qualche lecito dubbio.
Il primo è sui costi che una simile operazione ha comportato alle sempre esaurite casse dello Stato. Beninteso, ci vuole molto di più per spiegare il baratro finanziario nel quale stiamo precipitando, ma non è certamente aumentando gli sprechi (e questo lo è) che ce ne trarremo fuori. Un secondo dubbio è dato dal fatto che le autorità militari non potevano scegliere momento più opportuno per organizzare un simile spettacolo. O è soltanto un caso che tutto ciò sia avvenuto due giorni prima della presentazione, in Consiglio dei Ministri, del nuovo modello di difesa “formato Andò”?
Se la memoria non ci inganna, l’unico tentativo “serio” da parte dei Parlamento di far vestire anche alle donne la divisa era stata l’approvazione, da parte dei Senato nella passata legislatura, del pdl 5010 (arenatosi poi alla Camera) che prevedeva la sperimentazione della leva volontaria femminile. Il tutto senza troppa enfasi. D’altronde, nemmeno il progetto di nuovo modello di difesa presentato da Rognoni a fine ’91 era ricco di enfasi ed entusiasmo all’idea di veder le donne in grigioverde. In poco meno di una pagina (su un totale di 250) gli esperti militari avevano esaurito il problema confinandolo come scelta puramente politica, non “condizionata da fattori tecnici od operativi”.
Il terzo e più consistente dubbio, allora, è questo: cui prodest? Come interpretare questo ennesimo segnale che ci giunge da Via XX Settembre, da un Ministero, cioè, che ci ha abituato, nei mesi scorsi, alle spettacolari missioni militari in Sardegna e in Sicilia o, per altri versi, agli attacchi diretti e indiretti contro la nuova legge sull’obiezione di coscienza? Non vorremmo, in altri termini, che l’operazione donne in divisa fosse soltanto il modo per addolcire la pillola amara di un modello di difesa che si fa sempre più di offesa e sempre più costoso, alla ricerca di sempre nuovi consensi.
Ci chiediamo, e vorremmo che qualcuno ci aiutasse nella risposta, perché il Ministro della Difesa ha proposto un disegno di legge sul nuovo assetto delle forze armate comprendendovi anche il capitolo obiezione di coscienza, mentre il Parlamento sta faticosamente riprendendo la discussione di quel testo di legge già approvato nel gennaio scorso e non promulgato da Cossiga.
Crediamo però che ci sia ancora il tempo perché il governo si impegni a far riprendere la discussione (prevista per il prossimo 14 dicembre) sulla riforma della 772/72 assicurando il massimo sostegno alla sua rapida approvazione. Se infatti il progetto dei Ministro della Difesa sarà a pieno regime a partire dal 2007, nel frattempo non si può continuare a gestire un fenomeno in crescita, come quello dell’obiezione di coscienza e dei servizio civile, con una legge che ha vent’anni e che, ridotta a colabrodo da ben cinque sentenze della Corte Costituzionale, non è più in grado di gestire ventimila obiettori l’anno. In caso contrario (nel caso, cioè, che il Governo preferisse accantonare la legge in discussione per far approvare il testo del Ministro Andò) sarebbe molto difficile far capire agli obiettori e all’opinione pubblica che il gesto di Cossiga di dieci mesi fa non ha alcun legame con le decisioni dell’attuale Governo.
Ma torniamo al ruolo delle donne. Mentre si continua a inseguire il sogno di vedere affluire le donne in caserma (e siamo convinti, ahimè, che sarebbero in molte) nessuno si è mai preoccupato di riconoscere ufficialmente quel silenzioso ma prezioso contributo che da oltre dieci anni le donne stanno dando alla “difesa della patria”. Ci riferiamo all’esperienza dell’anno di volontariato sociale che, riconosciuto già da anni in altri paesi europei, stenta a trovare in Italia uno sbocco legislativo nonostante la ripresentazione periodica di una proposta di legge ad hoc che, soprattutto dopo la legge 266/91 sul volontariato, non dovrebbe conoscere alcun ostacolo.
Infine, il servizio civile obbligatorio. La Caritas Italiana ha formalizzato qualche mese fa una vecchia idea di istituire un servizio civile nazionale per tutti, obbligatorio per coloro che sono attualmente sottoposti agli obblighi di leva e che, per vari motivi, non espletano né un servizio militare né un servizio civile: seppure con qualche distinguo, la proposta rientra anche nel progetto Andò. Tuttavia, la proposta della Caritas Italiana ipotizzava che un simile servizio fosse reso obbligatorio anche per le donne, almeno in una prospettiva a lungo termine. Allo stato attuale, sarebbe già possibile per loro accedervi in maniera volontaria e ciò costituirebbe un riconoscimento dell’anno di volontariato sociale. Perché mai questa possibilità non può rientrare nello stesso progetto Andò?
Il nostro auspicio è che il Parlamento, chiamato prossimamente a discutere e approvare questo importante progetto, possa fare tesoro delle esperienze già presenti nel nostro Paese e riconoscerle a livello legislativo come proponibili a tutti i giovani.
Diego Cipriani e Paola Dal Dosso