Difendere l’obiezione

30 Giorni, n.4 aprile 1995

 

Mi ero rallegrato per il clima disteso e non più polemico con il quale si è svolto il dibattito in Senato sopra le modifiche alla legge sull’obiezione di coscienza quando ho visto riaccendere toni di contrapposizione, che peraltro vorrei sperare siano legati più ad una avvenuta estensione di ambito che non al problema originario.

Nel passato gli animi erano stati divisi da una forte aggressività degli estremisti di ambo le parti. Alcuni fautori della legalizzazione arrivavano a definire chi non condivideva la critica al servizio militare come guerrafondaio, violento, insensibile. Da parte loro, forti del fatto che l’unica volta che la Costituzione repubblicana usa l’aggettivo sacro è per il dovere di difendere la Patria, gli antiobiettori tacciavano gli altri come disfattisti, vili, carenti di una coscienza nazionale.

Ricordo in qualche edizione dell’annua adunata degli Alpini – che è sempre uno specchio dello stato d’animo del momento – invettive e scritte molto pesanti contro l’obiezione di coscienza. Non va dimenticato neppure che negli anni della guerra fredda molti siddetti partigiani della pace appartenevano ad un ben preciso fronte internazionale tutt’altro che pacificamente non allineato.

Ad attutire la disputa contribuirono molti fattori, a cominciare dalla divulgazione delle esperienze compiute in -altri Paesi anche europei. Ma giovò anche la conoscenza di figure esemplari di obiettori come il professor Fabrizio Fabbrini, tanto per fare un esempio, che manifestò la sua scelta di obiettore dopo aver assolto fino quasi alla fine gli obblighi militari, proprio per testimoniare che non ricercava un beneficio personale.

Altri, anche in campo cattolico, cercarono invece con una foga polemica che non poteva non provocare reazioni di imporre una normativa liberatoria che andava invece fatta maturare rasserenando i termini della questione. Mi trovai a vivere questo periodo critico ricoprendo dal 1959 al 1966 l’ufficio di ministro della Difesa e quindi da una sponda che almeno agli inizi non accettava neppure l’introduzione dello scottante argomento. E doveva farsi attenzione che la disputa su questo tema non danneggiasse l’atteggiamento rispettoso verso la Chiesa che nelle Forze armate era molto forte.

Ricordo due significativi momenti in proposito. Una solenne manifestazione a Palazzo Barberini in onore dei cardinali e vescovi di tutto il mondo (che erano qui per il Concilio) per ringraziarli della assistenza che nei vari campi di prigionia i nostri militari avevano ricevuto durante la guerra dal clero, spesso da sacerdoti che avevano studiato a Roma e parlavano quindi la nostra lingua. Un’altra circostanza rilevante fu data dai festeggiamenti che gli Stati Maggiori vollero organizzare per l’antico cappellano militare (in Marina e negli Alpini) don Giulio Bevilacqua, il parroco bresciano che il Papa aveva nominato cardinale.

E voglio citare anche l’eco profonda che alla morte di Giovanni XXIII ebbe la notizia che in San Pietro accanto alla bara del Pontefice era la bandiera del reggimento dove da giovane aveva prestato il suo servizio.

Occorreva quindi ad ogni costo che la giusta causa degli obiettori di coscienza non compromettesse un clima di buona comprensione.

Cercai senza grandi risultati, di convincere il padre Ernesto Balducci – elemento di punta nella campagna – a moderare i suoi toni. Il comune amico Vittorino Veronese me lo inviò per uno scambio di idee ad Ortisei dove ero in vacanza, ma non lo indussi affatto a moderazione. Mi disse anzi che si stava battendo per una da una dichiarazione molto dura nei documenti conciliari, diversa da quella che poi fu adottata.

L’Osservatore Romano del 22 settembre 1965 riportò una dichiarazione del segretario generale monsignor Pericle Felici così formulata: «Va chiarito che il servizio militare può essere obbligatorio e la responsabilità per un giudizio sulla sua necessità spetta anzitutto alla autorità civile e non ai singoli individui i quali, in tali casi, non possono rifiutare la loro obbedienza allo Stato».

Il battagliero padre Balducci non disarmò e finì con l’incappare – questo mi dispiacque molto – in una denuncia e condanna per istigazione alla disobbedienza, confermata dalla Corte di Cassazione.

Nel clima polemico del momento ricordo una presa di posizione di cappellani militari, ai quali alcuni propagandisti dell’obiezione avevano rivolto spiacevoli critiche di principio. Forse anche per questo l’Associazione dei cappellani aveva preso posizione netta contro l’obiezione. Dovetti così fronteggiare anche questa opposizione per così dire interna, che si aggiungeva a quella di ambienti cattolici, specie toscani, reattivi agli eccessi di padre Balducci. Nella parrocchia di Pelago di Firenze si era tenuta, ad esempio, una assemblea con voto finale di quaranta contrari e dieci favorevoli all’obiezione. Lo stesso cardinale di Firenze, il friulano Ermenegildo Florit, era intervenuto per deplorare che sacerdoti si prestassero «a queste forme di demagogia e classismo».

Scrissi al presidente dell’Associazione, monsignor Antonetti, chiedendo la sua collaborazione. Dopo la favorevole iniziativa del governo De Gaulle non era facile, sul piano politico, negare l’opportunità di una regolamentazione legislativa, non valendo la constatazione che i casi fino a quel momento verificatisi erano sporadici. Devo precisare che l’Associazione non fu affatto convinta e restò di parere contrario alla legge.

Occorreva da tutti uno sforzo di reciproca comprensione e di autentico amore di Patria e lo si raccomandava specialmente ai fiorentini. Quando Pistelli in una interpellanza parlò degli antiobiettori come nostalgici di quella «obbedienza cieca che ha maturato le recenti tragedie dell’Europa e del mondo», i cappellani toscani in congedo risposero di «considerare un insulto alla Patria e ai suoi Caduti la cosiddetta obiezione di coscienza che, estranea al Comandamento cristiano dell’amore,è espressione di viltà».

Tutto questo è alle nostre spalle e deve assolutamente restarvi. Tra tante involuzioni che si sono avute nella vita italiana, qualche evoluzione si è pur prodotta. E sulla“obiezione” non mi sembra ci siano più grosse avversioni di principio; certamente non vi sono nei cappellani.

Tornando agli anni Sessanta fu per me utile il contatto con giovani appartenenti ai Testimoni di Geova, che stavano silenziosamente scontando nel Forte Boccea la carcerazione per il rifiuto a vestire la divisa militare. Fui colpito dalla loro sincerità e dallo spirito di sacrificio (terminata la pena e persistendo nel diniego venivano ancora condannati, fino a che la Corte Costituzionale non cancellò, nel 1993, questa duplicazione) e cercai di far considerare il problema dai vertici delle Forze armate con una qualche disponibilità. Non fu facile. In una riservata riunione sul tema mi vidi presentare da uno dei partecipanti un articolo della Civiltà Cattolica nel quale il padre Antonio Messineo aveva preso posizione su uno dei primi casi processuali per obiezione di coscienza: «I giudici che hanno condannato il giovane Pinna a due anni di reclusione come renitente di leva hanno compiuto il loro dovere, e la Camera compirà il proprio respingendo la proposta di legge. La pericolosità del soggettivismo, che con essa si intende rendere legale, si può già vedere in atto nel rifiuto degli operai di qualche industria bellica di lavorare alla produzione delle armi e nel minacciato sciopero dei portuali, per non scaricare le armi inviate dall’America ai Paesi occidentali aderenti al Patto Atlantico. Ecco un’altra obiezione di coscienza, non più individuale come quella del Pinna, ma collettiva, la quale sarebbe perfettamente legittima, se fosse legittima l’altra di cui abbiamo fatto fin qui parola».

Pur sforzandomi di non fare della questione un problema cattolico, feci notare che, a parte la confusione dei temi, dal 1950 (data dell’articolo) vi era stata tutta una elaborazione preconciliare e conciliare che doveva essere tenuta presente. Senza dire che il padre Messineo non aveva virtù dogmatiche, tanto è vero che nel 1953 aveva scritto un articolo contro la politica di De Gasperi, subito dopo la sconfitta parlamentare del Presidente, non solo inopportuno ma profondamente ingiusto.

Il diligentissimo generale non si rassegnò. E tirò fuori un altro numero della Civiltà Cattolica, questa volta del 1961, nel quale il padre Enrico Baragli stroncava il film Non uccidere di Claude Autant-Lara scrivendo che lo stesso autore aveva dichiarato di non aver voluto fare una opera d’arte ma soltanto difendere una tesi (l’obiezione di coscienza). Ma di fatto, se aveva a modo suo difeso il quinto comandamento, certamente aveva offeso quello di «non dire il falso».

Questo film ci aveva creato molti problemi perché pur essendo vietato dalla censura (anche in Francia non fu autorizzata la programmazione) si cercò di proiettarlo in visioni pseudo-private. Purtroppo Giorgio La Pira – credo per suggerimento del padre Balducci – prese una iniziativa del genere invitando per di più anche i ministri, me compreso, obbligandomi ad una pubblica reazione del resto in linea parallela anche con L’Osservatore Romano.

Invitai i convenuti alla riunione ministeriale ad uno sforzo di obiettività e di lungimiranza. Sicuramente un giorno sarebbe stata riconosciuta la liceità dell’obiezione di coscienza. Perché non dovevamo prendere noi al Ministero l’iniziativa redigendo una rigorosa regolamentazione che isolasse tutte le pressioni massimaliste che si andavano organizzando?

Pur con la deferenza che i militari hanno per il loro ministro (superiore a quella corrente negli altri dicasteri) non ottenni alcun risultato.

L’ultima parola, anzi, fu dell’attento lettore della Civiltà Cattolica che citò un articolo di un quotidiano, contro l’obiezione, dell’illustre teologo milanese Giovanni Battista Guzzetti.

A rafforzare la tesi contraria a qualunque apertura contribuì certamente un parere che avevo chiesto al procuratore generale militare Enrico Santacroce, che pur essendo “esclusivo per la persona” non potevo non far correttamente conoscere ai capi di Stato Maggiore. Si metteva in luce che se la Costituzione non parlava di obiezione di coscienza vi era stato però un emendamento respinto in assemblea (con una sola dichiarazione di voto a favore, di Paolo Rossi). E la nota concludeva: «La negazione del particolare valore morale o sociale all’obiezione di coscienza è giustificata dal contrasto dell’obiezione con i criteri di moralità e di socialità che si desumono dalla coscienza collettiva che alimenta e vivifica il presente assetto della nostra società. Tale coscienza, informata ad un sentimento profondo di giustizia nazionale, reclama come un debito di fedeltà verso la Patria “in qua nati et nutriti sumus” l’adempimento del l’obbligo del servizio militare da parte dei cittadini e, coerentemente, nel rifiuto dell’accettazione di tale obbligo generale, ravvisa un’offesa alla moralità e alla socialità da cui essa coscienza è permeata».

Nel marzo del 1964 si intensificò la pressione anche da parte democristiana. In particolare – vedi radici fiorentine – l’onorevole Pistelli aveva portato in visione a Moro, presidente del Consiglio, una proposta di legge che intendeva presentare. Moro volle il mio parere che redassi in questi termini:

«Caro Moro, mi riferisco alla tua del 17 marzo c.a. sulla proposta dell’onorevole Pistelli per un riconoscimento giuridico degli obiettori di coscienza.

Il problema è da tempo al mio studio personale sotto i suoi due aspetti, in un certo senso contrapposti: da un lato si tratta – evitando peraltro facili abusi – di trovar modo di soddisfare un legittimo desiderio di giovani spiritualmente delicati; dall’altro canto bisogna impedire una speculazione all’insegna di una presunta insensibilità verso i valori patriottici e militari.

A latere si pone come preliminare la questione costituzionale sulla derogabilità delle obbligazioni militari, previste appunto in via generale dalla Costituzione.

Per molto tempo il Ministero ha resistito, secondo una tradizione non favorevole all’introduzione di deroghe, ma l’anno scorso, essendo sopravvenuta la favorevole legge francese promossa da De Gaulle (con la astensione di tutti i partiti democratici!) anticipai, nella discussione sul bilancio al Senato, una disposizione meno intransigente. Il nostro ufficio legislativo ha già predisposto uno schema e stiamo raccogliendo i pareri.

Ritengo – e l’ho detto a Scaglia e Zanibelli – che una paternità democristiana, e per di più fiorentina, non sia consigliabile. Abbiamo già abbastanza noie nell’opinione pubblica, per doverne cercare delle altre. Vedo però che i giornali già parlano a piamente della proposta Pistelli (una larga parte della quale è nel merito accettabile) e non vorrei che le nostre responsabili intese preliminari fossero… postume.

Tra non molto ti manderò il testo ministeriale e vedrò di farne coincidere la presentazione con qualche altro disegno di legge, psicologicamente compensativo. Cordiali e vivi saluti».

Le iniziative parlamentari presentate in precedenza non avevano avuto un esito apprezzabile, ma ormai era ineludibile una presa di posizione governativa. Preparammo con l’ufficio legislativo una bozza, impostata sulla facoltà di chiedere l’esonero per motivi di ordine religioso, filosofico e morale, prevedendo l’obbligo di un servizio civile statale alternativo, di analogo impegno e gravità e per la durata pari a due volte quella del servizio militare non prestato. Si fissava una retribuzione pari a quella dei soldati, ma si escludevano gli obiettori dalla possibilità di ottenere il porto d’armi.

Il 9 maggio (1964) inviai, come per legge, lo schema al parere del Consiglio superiore delle Forze armate, che era allora presieduto dal generale Giuseppe Massaioli e che vi dedicò due lunghe riunioni: il 14 luglio e il 28 ottobre, registrando in partenza un «orientamento prevalentemente negativo sussistendo però alcune gradazioni di pensiero sulla valutazione dei motivi del riconoscimento

giuridico dell’istituto dell’obiezione di coscienza». A rafforzare la tendenza contraria dei componenti militari del Consiglio contribuirono anche i giuristi civili. Il consigliere di Stato Landi disse: «Per l’obiettore l’adempimento del dovere di cui all’articolo 52 della Costituzione è azione immorale e riprovevole, principio questo che in teoria potrebbe anche essere esteso ad altri doveri generali verso lo Stato».

Una osservazione riguardò l’inesistenza di una opinione pubblica che richiedesse la promulgazione di una tale legge. «Anzi non si può asserire che gli obiettori di coscienza siano in Italia circondati da simpatia». La relazione finale del gruppo di lavoro che tra le due sedute aveva predisposto una dettagliata delibera toccò tutti i punti possibili, persino con un lungo excursus nella teologia che affermava: «Tertulliano, Lattanzio ed Origene furono sconfessati dalla Chiesa, e basta ricordare le lettere di san Paolo, il Concilio di Arles ed il pensiero espresso in me rito da molti pontefici per aver chiaro il fondamento teologico della tesi tradizionale della Chiesa stessa».

Ritenevano pertanto di poter sostenere che «l’obiezione di coscienza non trova alcun sostegno nella religione, nella morale e nella filosofia».

La conclusione del Consiglio superiore fu unanime nel voto negativo sul testo sottoposto, considerato addirittura pericoloso; e non ebbe esito una piccola apertura (favorevoli sei, contrari diciotto) per un eventuale esame di un nuovo testo che il ministro avesse inviato. Questa “concessione”, non accolta, era stata suggerita dopo che il sottosegretario Guadalupi aveva ricordato che io mi ero impegnato in Senato a presentare un disegno di legge.

Fui grato ai sei… coraggiosi, tra cui i generali Massaioli e Beolchini e il procuratore generale Santacroce, che avevano cercato almeno di lasciare uno spiraglio di soluzione.

Rimasi piuttosto contrariato, anche se non sorpreso, dalla presa di posizione del Consiglio superiore. Ma non sempre il perseverare è diabolico ed era mio dovere continuare a ricercare una via d’uscita.

Mi attivai anche presso le Associazioni d’Arma perché non si ostacolasse una soluzione ragionevole. Non si trattava infatti di dare agli obiettori il vantaggio di starsene a casa risparmiandosi il servizio di leva, ma di creare una prestazione non in armi, di durata un po’ più lunga degli allora diciotto mesi della “ferma”.

Questo sovrappeso mirava a dissuadere qualche furbo dal fingere una obiezione religiosa o culturale. Non dimentichiamo infatti di essere la Patria di Dante e di san Francesco, ma anche di Machiavelli e di altri. Arduo se non impossibile era il configurare uno strumento valido per accertare la veridicità dell’obiezione. Vi era infine da assicurare che a parte utilizzazioni para-ministeriali si individuassero enti, presso i quali inviare i giovani del servizio sostitutivo, che dessero tutte le garanzie di serietà compresa la certezza di non rilasciare dichiarazioni di comodo per presenze di fatto non effettuate.

Due anni dopo quando detti le consegne al ministro Tremelloni potei incoraggiarlo nel tentativo di ottenere un riesame nel Consiglio superiore – di cui nel frattempo aveva assunto la presidenza il generale Beolchini – anche perché sarebbe stato grave se le Camere avessero deciso su iniziativa parlamentare per la quale ovviamente non è previsto, come per i disegni del governo, l’avviso del massimo organo di consulenza militare. Ed in effetti nello stesso anno (31 maggio e 22 giugno) il Consiglio, pur confermando il parere contrario al riconoscimento giuridico, tuttavia passò all’esame dello schema, introducendo anche qualche proposta di modifica (ad esempio per un servizio militare non armato). Nel verbale figura una dichiarazione del generale Turrini secondo la quale il ministro aveva manifestato la preoccupazione che al movimento per l’obiezione militare di coscienza si affiancasse quello per l’obiezione fiscale.

Non sto qui a riprodurre il lungo iter delle iniziative legislative concluso nel 1972 con il riconoscimento dell’obiezione. «Gli obbligati alla leva che dichiarino di essere contrari in ogni circostanza all’uso personale delle armi per imprescindibili motivi di coscienza possono es­sere ammessi a soddisfare l’obbligo del servizio militare in un servizio militare non armato o in un servizio sostitutivo civile per un tempo superiore di otto mesi alla durata del servizio di leva cui sarebbero tenuti».

Il nodo era sciolto con grande cautela e le reazioni furono minime. Del resto per molti anni i richiedenti furono pochi, forse scoraggiati anche dalla lunghezza delle procedure. Ma sulla fine degli anni Ottanta si sviluppò una campagna per togliere tra l’altro la penalizzazione di un servizio più lungo (lo soppresse la Corte Costituzionale nel luglio 1989) e per dare meno discrezionalità alla Commissione chiamata a valutare l’esistenza di una «concezione generale della vita basata su profondi convincimenti religiosi o filosofici o morali professati dal soggetto».

Le relative proposte di legge trovarono l’approvazione in un testo della Ca­ordinato ai fini enunciati nei Principi fondamentali della mera il 25 luglio 1991 e del Senato il 16 gennaio 1992, proprio al limite dello scioglimento pre-elettorale. A questo punto il presidente della Repubblica Cossiga, a norma dell’articolo 74 della Costituzione, rinviò la legge al Parlamento per una nuova deliberazione, che peraltro era ritenuta non più possibile dato che si sosteneva che, a Camere sciolte, si potessero votare solo conversioni di decreti legge. Non nascondo che, per evitare il riacuirsi di polemiche io avrei optato per la trasformazione in decreto, ma non fu politicamente possibile. Nel messaggio del presidente non si contestava la sostanza della legge, ma si chiedeva di riconsiderare la conformità costituzionale di qualche punto e la necessità di congrue forme di accertamento sulla reale esistenza dei motivi di coscienza e di radicali convincimenti addotti dagli interessati a sostegno delle loro domande.

In che cosa consistevano le modifiche che introduceva la nuova legge? Innanzi tutto si mutava il «possono essere ammessi a» in «possono adempiere gli obblighi di leva prestando in sostituzione del servizio militare un servizio civile diverso per natura; autonomo dal servizio militare ma come questo rispondente al dovere costituzionale di difesa della Patria e ordinato ai fini enunciati nei Principi fondamentali della Costituzione».

Si dava poi alla Commissione un termine di sei mesi, scaduto il quale la domanda era automaticamente accolta. In caso di rigetto, si poteva ricorrere al pretore. La gestione degli obiettori passava dalla Difesa alla Presidenza del Consiglio con una elaborata casistica di destinazioni dei giovani presso organizzazioni ed enti umanitari e senza finalità di lucro, anche in altri Paesi europei.

L’abrogazione della legge del ’72 preoccupò i militari. In una intervista alla Repubblica, il capo di Stato Maggiore della Difesa dichiarò devastante la nuova legge che «svuotava le Forze armate». Tuttavia la nuova legislatura la approvò per metà, cioè alla Camera (29 settembre 1993), ma il Senato non fece in tempo, dato che il Parlamento fu sciolto con insolita abbreviazione.

Siamo quindi giunti alla legislatura del 1994 e cinque gruppi parlamentari hanno presentato proposte innovative, arrivandosi ad un testo unificato che il Senato ha approvato nelle scorse settimane, ma con emendamenti che, come ho scritto all’inizio di questo articolo, possono riaprire in maniera preoccupante il discorso.

Nel dibattito senatoriale il generale Ramponi, di cui tutti hanno apprezzato la disponibilità e la moderazione, ha posto un problema non marginale. Una volta che i giovani possono optare (diritto soggettivo) per l’uno o l’altro tipo di servizio, se tutti o quasi scegliessero la versione civile, come farebbero fronte le Forze armate alle loro esigenze? In prospettiva si può anche vedere la professionalizzazione (il cosiddetto esercito di mestiere, anche se non è espressione elegante) tanto più che oggi non ci sono più le pregiudiziali dei dubbi di golpismo; ma nel frattempo?

È un quesito al quale credo debba essere trovata una risposta magari con norme transitorie di non breve durata. Ma ancora più incisivo è l’ostacolo frapposto da un emendamento che estende il servizio civile a tutti gli idonei che sono esuberanti rispetto agli impieghi militari, salvo i giovani ritenuti insostituibili nel sostegno della famiglia o sul lavoro. Che questo problema degli esentati per esubero esista (creandosi una disparità tra i giovani), è fuor di dubbio, ma si tratta di una materia del tutto diversa da quella dell’obiezione di coscienza. Introducendosi un servizio civile obbligatorio, non si comprende tra l’altro perché non debba essere esteso – in armonia con la parità – anche alle donne.

Sarà saggio, io penso, da parte della Camera dei deputati stralciare questo problema per affrontarlo organicamente a parte. Non credo che il Senato reagirebbe negativamente.

Quel che conta, ripeto, è lo scongiurare ad ogni costo il ritorno di una disputa come quella degli anni Sessanta.

 

Giulio Andreotti

 

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