Corte Costituzionale – Sentenza 18 luglio 1989, n. 409

 

409

SENTENZA 6-18 LUGLIO 1989

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: dott. Francesco SAJA; Giudici: prof. Giovanni CONSO, prof. Ettore GALLO, dott. Aldo CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof. Renato DELL’ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, prof. Luigi MENGONI, avv. Mauro FERRI, prof. Enzo CHELI;

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 8, secondo, terzo ed ultimo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772 (Norme per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza) quale sostituito dall’art. 2, della legge 24 dicembre 1974, n. 695 (Modifiche agli artt. 2 e 8 della legge 15 dicembre 1972, n. 772, recante norme per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza) e dell’art. 27 c.p.m.p., promossi con ordinanze emesse il 5 maggio 1988 (nn. 5 ordd.), il 12 maggio 1988, il 29 giugno 1988 e il 14 luglio 1988 dal Tribunale militare di Napoli, iscritte rispettivamente ai nn. 459, 466, 467, 468, 469, 470, 471 e 472 del reg. ord. 1988 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39 prima serie speciale dell’anno 1988;

Visto l’atto di costituzione di Neri Leonardo nonché l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nell’udienza pubblica del 13 giugno 1989 il Giudice relatore Renato Dell’Andro;

Uditi l’avv. Mauro Mellini per Neri Leonardo e l’Avvocato dello Stato Stefano Onufrio per il Presidente del Consiglio dei ministri;

Ritenuto in fatto

1 – Con cinque ordinanze d’identico contenuto, emesse il 5 maggio 1988 nei procedimenti penali a carico di Neri Leonardo (Reg. ord. n.459/88), Abati Marco (Reg. ord. n. 466/88), Mainardi Gian Marco (Reg. ord. n. 467/88), Tripolini Enzo (Reg. ord. n. 468/88) e Fortunato Antonio (Reg. ord. n. 469/88) tutti imputati del delitto di rifiuto del servizio militare di leva per motivi di coscienza di cui all’art. 8 della legge 15 dicembre 1972, n. 772, quale sostituito dall’art. 2 della legge 24 dicembre 1974, n. 695, il Tribunale militare di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 25, secondo comma, 27, primo e terzo comma, e 103, ultimo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, secondo, terzo ed ultimo comma, della citata legge n. 772/1972.

In primo luogo, il giudice a quo ritiene che le norme impugnate contrastino con quel complesso di disposizioni costituzionali (artt. 2, 3, 25, secondo comma, 27, primo e terzo comma, Cost.) che consentirebbero di qualificare il diritto penale come extrema ratio di tutela della società, oltreché con l’art. 103, ultimo comma, Cost. Sulla base di tale assunto, l’incriminazione penale sarebbe consentita solo a tutela di beni giuridici di rilevanza costituzionale, rispettando il principio di proporzionalità fra bene tutelato e bene sacrificato dalla sanzione penale e sempre che sia accertata l’insufficienza degli altri strumenti di tutela civile od amministrativa. Invero, con l’entrata in vigore degli artt. 1 e segg. della già citata legge n. 772 del 1972 e dell’art. 2 della legge 24 dicembre 1986, n. 958, si sarebbe realizzata una rinuncia, da parte dell’ordinamento, a pretendere dagli obiettori di coscienza l’adempimento dell’obbligo del servizio militare e pertanto non vi sarebbe più necessità di tutela penale dello stesso obbligo.

In secondo luogo, la sanzione penale prevista dall’art. 8 della legge n. 772 del 1972 non avrebbe più alcuna ragionevole giustificazione sia perché ormai lo Stato, con il riconoscere l’alternativa del servizio civile, mostra di non avere più interesse alla prestazione del servizio militare da parte degli obiettori di coscienza, tanto più che questi ultimi, una volta scontata la pena, sarebbero affrancati da quel servizio (terzo comma dell’art. 8) sia perché la sanzione penale in esame, invece di tendere alla rieducazione del condannato, come prevede l’art. 27 della Costituzione, finirebbe con il fargli conseguire – a pena espiata il risultato delittuoso che egli si era prefisso e cioè il non prestare il servizio militare.

Del resto, proseguono le ordinanze di rimessione, analoga sanzione penale, che andrebbe mantenuta, esiste già nel codice penale militare di pace (art. 151) ma molto meno severa di quella di cui al secondo comma del citato art. 8. Di qui l’ulteriore profilo di incostituzionalità di quest’ultima sanzione in pregiudizio dell’obiettore di coscienza, che verrebbe trattato in modo diverso da un qualsiasi altro renitente.

2 – Nel giudizio promosso con l’ordinanza n. 459 del 1988 si è costituita la parte privata Neri Leonardo, che ha concluso per l’accoglimento della questione, sottolineando, in particolare, il contrasto della disciplina sanzionatoria dettata dalla disposizione impugnata con l’art. 3 Cost.

3 – Con altre tre ordinanze d’identico contenuto, emesse il 12 maggio 1988 nel procedimento penale a carico di Szumsky Carmelo Vivian (Reg. ord. n. 470/88) il 29 giugno 1988 nel procedimento penale a carico di Gatelli Maurizio ed altri (Reg. ord. n. 471/88) ed il 14 luglio 1988 nel procedimento penale a carico di Grillo Francesco ed altri (Reg. ord. n. 472/88) tutti imputati del delitto di rifiuto del servizio militare di leva di cui all’art. 8 legge n. 772 del 1972, il Tribunale militare di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 25, secondo comma, 27, primo e terzo comma, questione identica a quella già sollevata dalle precitate ordinanze di rimessione ed altra questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 103 Cost., dell’art. 27 c.p.m.p.

4 – Nel giudizio promosso con ordinanza n. 470 del 1988 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la non fondatezza delle proposte questioni.

L’Avvocatura osserva che il riferimento all’art. 151 c.p.m.p. appare improponibile anche sotto il profilo della disparità di trattamento. Tale norma punisce, infatti, la “mancanza alla chiamata” del militare di leva, ossia un evento che non ha relazione alcuna con il caso in esame. Invero l’obiettore rifiuta deliberatamente, per ragioni di coscienza, la prestazione di qualsiasi servizio ed assume, quindi, una preclusiva posizione di principio. Viceversa, la recluta che non si presenta alla chiamata entro il quinto giorno potrebbe anche essere un perfetto soldato ed aver commesso quell’omissione per motivi che, pur non giustificandolo, in nulla contrastino con la sua volontà d’adempiere all’obbligo di prestare il servizio militare. L’art. 151 c.p.m.p. configura, in sostanza, un reato militare formale, la cui fattispecie non appare confrontabile, anche per la gravità di gran lunga minore, con la fattispecie prevista e punita dall’art. 8 della legge n. 772 del 1972. Quanto alle altre censure prospettate dal giudice a quo l’Avvocatura rileva che debba esser tenuto presente il disposto dell’art. 52 Cost. non tanto nella parte in cui proclama che la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino quanto laddove viene prescritto che “il servizio militare è obbligatorio nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge…”. Infatti, l’avere il legislatore previsto, negli artt. 1 e segg. della legge n. 772 del 1972, il servizio militare non armato ed il servizio sostitutivo civile non equivale ad aver rinunciato alla tutela dell’obbligatorietà del servizio militare di leva. E tale tutela è, appunto, assicurata dal secondo comma dell’art. 8 della stessa legge, attraverso la sanzione penale: quest’ultima è, invero, l’unica reazione adeguata alla violazione d’un interesse costituzionalmente rilevante.

Considerato in diritto

1 – Le questioni sollevate dalle ordinanze di rimessione, essendo identiche od analoghe, possono, riuniti i procedimenti, essere decise con unica sentenza.

2 – Le predette ordinanze, nel sottoporre a controllo di legittimità costituzionale l’art. 8, secondo, terzo ed ultimo comma, della legge n. 772 del 1972, fanno riferimento agli artt. 2, 3, 13, 25, secondo comma, 27, primo e terzo comma, Cost. e, cioè, a quel complesso di parametri che consentono di qualificare il diritto penale come extrema ratio di tutela della società. L’incriminazione penale, secondo le ordinanze di rimessione, sarebbe consentita soltanto a tutela di beni di rilevanza costituzionale, secondo un principio di proporzionalità fra beni tutelati ed interessi sacrificati dalla sanzione penale, allorché sia accertata l’insufficienza degli altri strumenti di tutela civile od amministrativa. Poiché con gli artt. 2 della legge 24 dicembre 1986, n. 958 e 1 e segg. della legge 15 dicembre 1972, n. 772 si rinuncia a pretendere dagli obiettori di coscienza l’adempimento dell’obbligo del servizio militare, non esisterebbe più, nei confronti di tutti gli obiettori di coscienza, e quindi anche di quelli indicati dall’art. 2 della citata legge n. 772 del 1972, la necessità della tutela dell’obbligatorietà del servizio militare.

Nel prendere in esame le argomentazioni ora riportate va premesso che le medesime arbitrariamente unificano tre distinti principi: il primo, indicato di recente da autorevole dottrina, secondo il quale non sono legittime incriminazioni penali a tutela di beni non espressivi di valori costituzionalmente rilevanti (o significativi); il secondo, enunciato come principio di proporzionalità (valido per l’intero diritto pubblico) a termini del quale la scelta dei mezzi o strumenti, da parte dello Stato, per raggiungere i propri fini “va limitata da considerazioni razionali rispetto ai valori”: nel campo del diritto penale, il principio equivale a negare legittimità alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalità statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all’individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla società sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest’ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni; ed il terzo principio, di sussidiarietà del diritto penale (quest’ultimo considerato come extrema ratio) secondo il quale è legittimo ricorrere alla sanzione penale soltanto allorché gli altri rami dell’ordinamento non offrano adeguata tutela ai beni che s’intendono garantire. I predetti principi, benché collegati (ad es. la non legittimità dell’incriminazione di fatti lesivi di beni non costituzionalmente rilevanti equivale anche a ridurre l’ambito del penalmente rilevante, come sancito dal principio di sussidiarietà) sono fra loro autonomi, indipendenti (ad es., non basta che l’incriminazione attenga ad un bene costituzionalmente rilevante per totalmente adempiere al principio di sussidiarietà, giacché, ove gli altri rami siano in grado d’offrire adeguata tutela allo stesso bene, non è legittimo che quest’ultimo sia penalmente garantito, non essendo l’incriminazione del fatto lesivo del predetto bene extrema ratio).

3 – In ordine al primo dei principi ora ricordati, ed a parte ogni questione relativa alla censurabilità (od ai limiti di censurabilità) in questa sede delle norme ordinarie violatrici dello stesso principio, non sorge alcun dubbio sulla significatività (o rilevanza) costituzionale dell’obbligatorietà del servizio militare: le stesse ordinanze di rimessione, infatti, non contestano (e come potrebbero?) che sia costituzionalmente garantito, con espressa dichiarazione, l’obbligatorietà del servizio militare.

Le ordinanze in esame sostengono, invece, che, poiché l’amministrazione militare, ai sensi degli artt. 1 e segg. della legge 15 dicembre 1972, n. 772, rinuncia a pretendere la prestazione del servizio militare da parte degli obiettori di coscienza, allo stesso modo dovrebbe comportarsi nei confronti degli obiettori di cui all’art. 8, secondo comma, della predetta legge, mancando anche nell’ipotesi di cui al citato comma l’interesse a pretendere l’adempimento dell’obbligo del servizio militare; tanto più che, a pena espiata, il condannato viene esonerato, ai sensi del terzo comma dello stesso art. 8, dalla prestazione del servizio militare di leva.

L’assunto, ora riportato, non è condividibile.

Anzitutto, le situazioni di cui agli artt. 1 e segg. della legge in esame sono certamente diverse da quelle di cui al secondo comma dell’art. 8 della stessa legge. Vale appena ricordare che la dottrina, sotto la generica etichetta di “obiezione di coscienza”, distingue varie specie (obiezione assoluta e relativa, totale e particolare, ecc.) e che la figura dell’obiettore di coscienza prevista dagli artt. 1 e segg. della legge in discussione è quella di chi, pur adducendo gli stessi motivi “di coscienza” previsti dal secondo comma dell’art. 8 (quest’ultimo comma, in ordine al movente del rifiuto ivi indicato, rinvia, infatti, ai motivi di cui all’art. 1) fa domanda, ai sensi del primo comma dell’art. 2, d’essere ammesso (cfr. art. 5) a prestare servizio militare non armato o servizio alternativo civile. Or la situazione di chi è contrario all’uso personale delle armi per imprescindibili motivi di coscienza ma nello stesso tempo richiede ed ottiene d’essere ammesso a prestare servizio militare non armato o servizio alternativo civile è diversa e non comparabile con l’ipotesi di chi, pur adducendo gli stessi motivi di coscienza, totalmente rifiuta, in tempo di pace, prima d’assumerlo, il servizio militare di leva, rifiutandosi, così, d’adempiere a doveri di solidarietà sociale sanciti dall’art. 2 Cost.

Né è accoglibile l’assunto secondo il quale quanto qui sostenuto, se vale nei confronti di coloro che non propongono domanda di prestare servizio militare non armato o servizio civile alternativo (soltanto la non presentazione di tale domanda indurrebbe a ritenere che l’obiettore di coscienza, nell’ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 8, totalmente rifiuti il servizio militare di leva ed insieme ogni tipo di servizio militare, anche non armato, ed ogni servizio alternativo civile, così dimostrando avversione a doveri di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost.) non varrebbe nei confronti degli obiettori che la predetta domanda presentano, non ottenendo, tuttavia, d’essere ammessi al servizio militare non armato od al servizio civile alternativo.

Anzitutto, l’amministrazione militare dello Stato non può non premunirsi contro eventuali frodi: ed all’uopo la legge predispone strumenti idonei a raccogliere e verificare gli elementi utili ad accertare la fondatezza e sincerità (cfr. art. 3, primo comma e 4, terzo comma, della legge n. 772 del 1972) dei motivi addotti dall’obiettore di cui al primo comma della stessa legge (la composizione delle commissioni all’uopo istituite è specificamente tecnica): e d’altra parte la dottrina, nel sottolineare la discrezionalità puramente tecnica delle predette commissioni, è dell’avviso che al Ministro della difesa spetti il solo potere di controllo sulla legittimità formale dell’operato delle commissioni stesse e sostiene che la non vincolatività del parere delle predette commissioni nei confronti del Ministro (che decide sulla domanda di cui al primo comma dell’art. 3 della legge n. 772 del 1972) riguardi soltanto la scelta tra l’assegnazione al servizio militare non armato ovvero a quello civile (qualora l’interessato non abbia esercitato la facoltà di “optare” per il secondo) e ricorda anche che, per quanto la legge nulla espressamente disponga sugli eventuali mezzi d’impugnazione del citato decreto ministeriale, il medesimo, trattandosi di atto amministrativo, è impugnabile, secondo i principi generali della giustizia amministrativa, con ricorso agli organi di giurisdizione amministrativa o con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.

Le situazioni di cui agli artt. 1 e segg. della legge in esame sono diverse da quelle di cui al secondo comma dell’art. 8, anche perché, in queste ultime (non esiste, infatti, alcun controllo sulla fondatezza e sincerità dei motivi addotti per il rifiuto di cui al precitato comma) l’allegazione dei motivi vale sia per asseverare il rifiuto globale di prestare, in ogni caso, servizio militare (pur esistendo la possibilità di prestare servizio civile o militare non armato) sia per escludere dal trattamento di cui al secondo e terzo comma dell’art. 8 coloro che, a giustificazione del rifiuto, adducano motivi politici.

E, certo, chi rifiuta d’adempiere a doveri di solidarietà sociale costituzionalmente sanciti non è equiparabile a chi, invece, nell’atto in cui dichiara d’essere contrario all’uso personale delle armi per imprescindibili, giuridicamente controllati, motivi di coscienza, quei doveri di solidarietà puntualmente adempie chiedendo (ed ottenendo, essendo fondati e sinceri gli addotti motivi di coscienza) d’essere ammesso al servizio militare non armato od al servizio civile alternativo.

In base alle precedenti considerazioni, va disatteso l’assunto, innanzi ricordato, secondo il quale il legislatore ordinario, per non aver tutelato il bene di cui al secondo comma dell’art. 52 Cost., nelle ipotesi previste dagli artt. 1 e segg. della legge n. 772 del 1972, avrebbe completamente rinunciato alla tutela dello stesso bene.

Anzitutto, il legislatore ordinario non può mai “sminuire” o “rinunciare” alla tutela di valori costituzionalmente rilevanti (e, perdippiù, come nella specie, espressamente enunciati dalla Carta fondamentale). Ma è lo stesso legislatore costituzionale a sancire, nel secondo comma dell’art. 52 Cost., che “il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge”. L’avere il legislatore ordinario, con le disposizioni di cui agli artt. 1 e segg. della legge n. 772 del 1972, subordinato la tutela della prestazione del servizio militare armato, di cui all’art. 52, secondo comma, Cost., alla tutela d’altro bene, pur costituzionalmente rilevante, la libertà di coscienza, nella situazione di cui agli stessi articoli (nella quale, si ripete, vengono puntualmente realizzati i doveri di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost.) non equivale, certo, a totale rinuncia alla tutela dell’obbligatorietà del servizio militare di cui al predetto secondo comma dell’art. 52 Cost.: tale obbligatorietà è, pertanto, legittimamente tutelata nell’ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 8 della legge n. 772 del 1972.

4 – In relazione ai precitati altri due principi, di “proporzionalità” e “sussidiarietà” del diritto penale, va precisato che soltanto il richiamo al principio di proporzionalità risulta fondato, nel ristretto senso, come si avrà modo di notare fra poco, che risulta sproporzionata e manifestamente irrazionale la quantità di pena comminata dal contestato secondo comma dell’art. 8 della legge in esame per l’ipotesi delittuosa ivi prevista mentre infondato appare il richiamo al principio di “sussidiarietà”, almeno nei limiti in cui tal richiamo può esser preso in considerazione in questa sede.

Non v’è dubbio, infatti, che il legislatore non è sostanzialmente arbitro delle sue scelte criminalizzatrici ma deve, oltre che ancorare ogni previsione di reato ad una reale dannosità sociale, circoscrivere, per quanto possibile, tenuto conto del rango costituzionale della (con la pena sacrificata) libertà personale, l’ambito del penalmente rilevante ma è anche indubbio che le valutazioni, dalle quali dipende la riduzione del numero delle incriminazioni, attengono a considerazioni generali (sulla funzione dello Stato, sul sistema penale, sulle sanzioni penali) e particolari (sui danni sociali contingentemente provocati dalla stessa esistenza delle incriminazioni, dal concreto svolgimento dei processi e dal modo d’applicazione delle sanzioni penali) che, per loro natura, sono autenticamente ideologiche e politiche e, pertanto, non formalmente controllabili in questa sede. La non applicazione, da parte del legislatore ordinario, dei criteri informatori di politica criminale (quale quello di “sussidiarietà” del diritto penale) costituzionalmente sanciti, possono, infatti, essere censurati da questa Corte solo per violazione del criterio di ragionevolezza e per indebita compressione del diritto fondamentale di libertà costituzionalmente riconosciuto.

L’aver il legislatore ordinario usato la sanzione penale della reclusione per il recupero alla comunità nazionale di chi, sia pur adducendo motivi di coscienza, rifiuta d’adempiere agli obblighi di solidarietà sociale, quale quello sancito dal secondo comma dell’art. 52 Cost., non solo non è manifestamente irrazionale ma, data la particolare gravità del fatto di cui al secondo comma dell’art. 8 della legge n. 772 del 1972, appare, nei limiti delle valutazioni qui operabili, sufficientemente giustificato. Né esiste, nell’incriminazione di cui al comma da ultimo citato, indebita compressione del diritto fondamentale di libertà costituzionalmente riconosciuto, giacché tale compressione viene operata per equilibrare la grave lesione ad un bene, espressamente riconosciuto dalla Costituzione e, pertanto, di rilevanza e significatività costituzionale.

Anche se il legislatore avesse presunto per “fondati e sinceri” i motivi addotti dal soggetto attivo del delitto di cui al secondo comma dell’art. 8 della legge n. 772 del 1972, non erano a disposizione dello stesso legislatore altre “impensabili” misure sanzionatorie, quali, ad es. un assurdo, coatto servizio militare non armato od un, del pari assurdo, coatto servizio civile alternativo: non rimaneva, dunque, per il recupero del soggetto attivo che il ricorso alla sanzione penale detentiva. Ed è del tutto inaccoglibile l’assunto secondo il quale, nell’ipotesi in esame, una sanzione pecuniaria avrebbe potuto raggiungere lo stesso scopo della reclusione, giacché (a parte ogni questione relativa alla disparità di posizioni, rispetto alla sanzione pecuniaria, degli obbligati al servizio di leva) come s’è già avvertito, la gravità del delitto importa, nella specie, tenuto anche conto della particolarità dei soggetti attivi, una rieducazione adeguata ai singoli devianti, realizzata attraverso “trattamenti” carcerari specificamente individualizzati.

5 – Le ordinanze di rimessione contestano da un canto che la pena possa favorire il condannato (e ciò avverrebbe, nell’ipotesi contestata, giacché, espiata la pena, il condannato è esonerato dal servizio militare) e dall’altro che la stessa pena possa raggiungere finalità rieducative allorché, come nella specie, lo Stato promette all’autore del delitto, in conseguenza dell’espiazione, di raggiungere lo scopo delittuoso, e cioè l’esonero dal servizio militare.

Si è già, innanzi, dimostrato che il ricorso alla pena detentiva, per il delitto di cui al secondo comma dell’art. 8 della legge n. 772 del 1972, non è manifestamente irrazionale e non comprime arbitrariamente il diritto di libertà dell’autore dello stesso delitto: non è, pertanto, il caso di ripetere quanto si è già osservato.
Conviene, tuttavia, svelare l’equivoco nel quale cadono le ordinanze di rimessione nel considerare, ex ante, all’inizio dell’espiazione della pena detentiva, quel che potrà accadere, alla fine dell’espiazione stessa, nelle sole ipotesi in cui l’esecuzione della pena non abbia raggiunto il recupero sociale del condannato.

Questa Corte osserva che anche nella situazione prevista dal secondo comma dell’art. 8 della legge in discussione la pena deve perseguire, come di regola, il recupero, alla comunità, del deviante: anzi, il fatto che, ai sensi del precitato art. 8, quarto, quinto, sesto e settimo comma, il condannato possa, anche durante l’esecuzione della pena detentiva, proporre domanda d’essere arruolato nelle forze armate o d’essere ammesso al servizio militare non armato o ad un servizio sostitutivo civile e che l’accoglimento delle predette domande, nell’estinguere il reato, fa cessare, se v’è stata condanna, l’esecuzione della pena, dimostra che l’interesse dello Stato al “recupero”, alla “rieducazione” del reo, è, nella situazione in esame, realmente ed intensamente perseguito.

Ciò che avviene, dopo l’espiazione della pena, nelle ipotesi in cui la rieducazione ed il recupero alla solidarietà sociale del reo non sono stati raggiunti (giacché il condannato non ha proposto le domande sopracitate) non attiene alla finalità rieducativa della pena: quest’ultima, sia nel momento della comminatoria legislativa sia in quello dell’inflizione in sede giudiziaria come nel momento dell’esecuzione penitenziaria, tende, nel caso in esame, a suscitare nel reo l’esigenza d’adempiere ai prescritti doveri di solidarietà innanzi indicati e, in particolare, all’obbligo di prestare il servizio militare od altro servizio equiparato.

Non v’è dubbio, fra l’altro, che anche la criticata, dalle ordinanze di rimessione, previsione dell’estinzione del reato, dell’esecuzione della condanna, delle pene accessorie e d’ogni altro effetto penale (di cui all’ultimo comma dell’art. 8 della legge in discussione) tende ad ulteriormente stimolare la rieducazione (il ritorno alla solidarietà sociale del reo): non può disconoscersi, infatti, che incentivo notevole a proporre le domande per essere arruolati nelle forze armate o per essere ammessi al servizio militare non armato o ad un servizio civile alternativo è costituito dalla promessa estinzione, appena accolte le citate domande, del reato e d’ogni altro effetto penale della condanna.

La valutazione che il legislatore compie, a pena totalmente espiata, nelle ipotesi, e nelle sole ipotesi, in cui l’integrale esecuzione della pena e gli incentivi ora ricordati non abbiano raggiunto la finalità rieducativa, ha nulla a che vedere con quest’ultima, che deve essere perseguita durante tutta l’esecuzione della pena.

Nelle citate ipotesi di mancata rieducazione, dopo l’esecuzione di tutta la pena, il legislatore ordinario non ha, in mancanza di altre sanzioni idonee allo scopo, che un’alternativa: o una nuova condanna, con la tragica spirale delle “condanne a catena” o l’esonero dal servizio militare. Il terzo comma dell’art. 8 della legge in esame sceglie quest’ultima strada: tale scelta appare a questa Corte non irrazionale, tenuto conto che, quand’anche potessero profilarsi altri obblighi, per il legislatore ordinario, di penalizzazione per fatti violativi di valori particolarmente significativi, costituzionalmente rilevanti, certo è che non risulta costituzionalmente sancito alcun obbligo di penalizzazione per le violazioni all’interesse tutelato dal secondo comma dell’art. 52 Cost. E poiché l’accoglimento, da parte del Ministro della difesa, delle domande di cui al quarto comma dell’art. 8 della legge in esame è condizionata dal procedimento di cui all’art. 4 della stessa legge (quest’ultimo procedimento, si è già sottolineato, non lascia spazio ad alcuna discrezionalità non tecnicamente vincolata e, comunque, l’eventuale rigetto delle domande stesse è soggetto alle normali impugnazioni stabilite, per principio generale, nei confronti di tutti gli atti amministrativi; per le domande d’essere arruolati nelle forze armate, di cui al quinto comma dell’art. 8, non si prospettano particolari ipotesi di discrezionalità, a parte le disposizioni legislative che prevedono, in ogni caso, normali ipotesi d’esonero dal servizio militare) neppure può fondatamente sostenersi, come assumono le ordinanze di rimessione, che il giudice venga ridotto, nei casi d’estinzione del reato per l’accoglimento delle domande più volte citate o di prosecuzione dell’esecuzione della pena nelle ipotesi di rigetto delle domande stesse, a far da notaio all’accordo Ministro della difesa – obiettore di coscienza. Nessun accordo di tal genere risulta previsto nelle leggi qui in esame: l’estizione del reato viene, infatti, condizionata dalla proposizione delle domande sopra ricordate, che testimoniano, già per se stesse, l’avvenuto recupero del condannato ai doveri di solidarietà sociale più volte sottolineati, nonché dall’accoglimento delle domande stesse, una volta accertata, attraverso procedimenti legislativamente disciplinati, la fondatezza e la sincerità dei motivi addotti dal richiedente, per i casi di cui al quarto comma dell’art. 8 della legge n. 772 del 1972.

E certamente non irrazionale appare anche l’ultima parte dell’ultimo comma dell’impugnato art. 8 della legge n. 772 del 1972. Non è irrazionale, nel momento stesso in cui il condannato, ormai rieducato, presenta domanda d’essere arruolato nelle forze armate o d’essere ammesso al servizio militare non armato o ad un servizio civile, disporre che il tempo trascorso in stato di detenzione sia computato in diminuzione della durata prevista per i servizi richiesti con la precitata domanda. La disposizione in esame, dopo tutto quanto si è innanzi precisato, non autorizza a ritenere che la detenzione equivalga al servizio militare e che il legislatore, nell’art. 8, secondo comma, della legge in esame, sostituisca la detenzione al (mancato) servizio militare. Servizio militare e detenzione sono, nelle rispettive ragioni, contenuti e fini, del tutto non comparabili: la detenzione prescritta dal citato secondo comma dell’art. 8 della legge in esame è normale reazione dell’ordinamento al delitto di rifiuto (totale) d’adempiere al servizio militare e tende, come s’è chiarito, a rieducare il condannato, ad incentivarne il ritorno alla normalità. La valutazione, secondo la quale (a termini dell’ultima parte dell’ultimo comma dell’art. 8 della già più volte citata legge) considerato che il condannato ha offerto concreti segni di ravvedimento è sembrato al legislatore opportuno tener conto delle limitazioni alla libertà che la detenzione comporta, ha, invece, nulla a che vedere con la legittima detenzione per il delitto in esame.

Non risultano, dunque, nelle contestate disposizioni della legge, tranne quanto verrà dichiarato nel paragrafo successivo, violazioni degli artt. 2, 3, 13, 25 secondo comma, 27, primo e terzo comma, Cost. e neppure, per le considerazioni dianzi precisate, del terzo comma dell’art. 103 Cost.

6 – Fondata è, invece, l’impugnativa, sollevata dalle ordinanze di rimessione e sulla quale ha particolarmente insistito la difesa privata, relativa alla sproporzione della pena comminata, dal secondo comma dell’art. 8 della legge in esame, per la fattispecie di rifiuto, in tempo di pace, prima d’assumerlo, del servizio militare di leva, adducendo i motivi di cui all’art. 1, rispetto alle pene comminate per la fattispecie prevista dall’art. 151 del c.p.m.p.

Questa Corte ha già più volte osservato che il principio d’uguaglianza, di cui all’art. 3, primo comma, Cost., esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia, nel contempo, alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali; ed ha aggiunto che le valutazioni all’uopo necessarie rientrano nell’ambito del potere discrezionale del legislatore, il cui esercizio può essere censurato, sotto il profilo della legittimità costituzionale, soltanto nei casi in cui non sia stato rispettato il limite della ragionevolezza (cfr., ad es., le sentenze (5 maggio) 25 maggio 1979, n. 26; (8 maggio) 20 maggio 1980, n. 72; (20 maggio) 27 maggio 1982, n. 103; (9 febbraio) 16 febbraio 1989, n. 49).

La sanzione della reclusione da due a quattro anni, comminata dal secondo comma dell’art. 8 della legge in esame, per il delitto ivi previsto, risulta, tenuto conto della disciplina sanzionatoria di cui all’art. 151 c.p.m.p., manifestamente irrazionale. Per quanto subiettivamente diversificati, i delitti di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza e di mancanza alla chiamata ex art. 151 c.p.m.p. ledono, con modalità oggettive analoghe, uno stesso interesse, quello ad una regolare incorporazione degli obbligati al servizio di leva nell’organizzazione militare. La notevole diversità di trattamento penale tra il militare che rifiuta il servizio militare adducendo motivi di coscienza (pena edittale da due a quattro anni) ed il militare che, mancando alla chiamata, sostanzialmente rifiuta lo stesso servizio militare senza alcun motivo o per motivi futili (pena edittale da sei mesi a due anni) apertamente comporta arbitraria, sproporzionata severità nei confronti del militare che adduce, a giustificazione del suo delitto, motivi di coscienza.

Come, nel confronto tra le situazioni previste dagli artt. 1 e segg. e quelle di cui al secondo comma dell’art. 8 della legge in esame, si è innanzi sottolineato non soltanto la diversità ma anche la gravità delle situazioni individuate dal citato secondo comma dell’art. 8, così, nel confronto tra la fattispecie tipica prevista dallo stesso secondo comma e quella di cui all’art. 151 c.p.m.p., pur nella diversità (subiettiva) delle medesime (che è causa, unitamente alle altre ragioni d’opportunità già poste in luce, della particolare disposizione di cui al terzo comma dell’art. 8 e cioè dell’esonero dalla prestazione del servizio militare a pena espiata: disposto che non si rinviene nell’art. 151 c.p.m.p.) non può non sottolinearsi la lesione, con analoghe modalità oggettive, da parte di entrambi i fatti delittuosi, d’uno stesso bene giuridico. D’altra parte, il rimprovero di colpevolezza che si muove al soggetto attivo del delitto previsto dal secondo comma dell’art. 8 della legge in esame, non potendo, certo, esser quello d’aver addotto, a giustificazione (o spiegazione) del delitto commesso, motivi di coscienza, risulta identico (od almeno analogo) a quello mosso al militare che manca alla chiamata ex art. 151 c.p.m.p., e cioè quello d’aver dolosamente leso l’interesse statale alla normale incorporazione nell’organizzazione militare. Va, pertanto, qui ribadito che l’adduzione di motivi di coscienza (come, del resto, di qualsiasi scelta ideologica) non può, in nessun caso, condurre alla davvero sproporzionata (rispetto a quella ex art. 151 c.p.m.p.) sanzione penale di cui al secondo comma dell’art. 8 della legge n. 772 del 1972.

Si tenga conto che è il legislatore che, nel codice penale militare di pace, ha liberamente e discrezionalmente scelto la disciplina sanzionatoria adeguata al disvalore del fatto di cui allo stesso articolo; disciplina applicabile a tutti i soggetti e quali che siano i moventi, i motivi dell’azione delittuosa. Non può lo stesso legislatore, nell’art. 8, secondo comma, della legge n. 772 del 1972, irrazionalmente contraddire la valutazione in precedenza operata (in generale e senza tener tipicamente conto dei motivi dell’azione criminosa) e valutare in maniera tanto diversa il disvalore dello stesso (od analogo) fatto sol perché commesso adducendo uno specifico motivo: quello di coscienza.

E non si manchi di riflettere che questa Corte, nel riferire la sanzione penale di cui al secondo comma dell’art. 8 della più volte citata legge a quella edittalmente prevista per il delitto di cui all’art. 151 c.p.m.p., non fa che vincolatamente attuare, anche per il fatto di cui al ricordato secondo comma dell’art. 8, la valutazione che il legislatore opera in ordine al disvalore dello stesso (od analogo) fatto di cui all’art. 151 c.p.m.p.

Né si obietti che, mentre l’espiazione della pena inflitta per il delitto di rifiuto del servizio militare ex art. 8, secondo comma, della legge in discussione, comporta l’esonero dal servizio militare, non altrettanto avviene a seguito dell’espiazione della pena ex art. 151 c.p.m.p. Già innanzi si è chiarito che la pena, qualsiasi pena, come non può essere inflitta per “favorire” il reo tanto meno può esser assurdamente sproporzionata al disvalore dell’illecito commesso sol perché, ad espiazione avvenuta, consente al reo l’esonero dal servizio militare. Tal esonero, si è già chiarito a sufficienza, ha nulla a che vedere con le finalità della pena che, anche in questo caso, dovendo essere adeguata al disvalore del fatto commesso, deve tendere, come tutte le sanzioni penali, a rieducare, ai sensi del terzo comma dell’art. 27 Cost., il condannato. L’esonero in discussione, conseguenza d’una libera, discrezionale scelta del legislatore non appare violare la Carta fondamentale (non essendo lo stesso legislatore costituzionalmente vincolato da alcun obbligo di criminalizzazione dei fatti lesivi dell’interesse tutelato dal secondo comma dell’art. 52 Cost.) né è irrazionale: non essendo ipotizzabili altre sanzioni adeguate al caso particolarissimo in discussione, il legislatore ritiene d’interrompere la spirale delle “condanne a catena”, nella presunzione che, ormai, anche la sanzione penale non può più raggiungere gli effetti rieducativi di cui all’art. 27, terzo comma, Cost.

In conclusione, l’art. 8, secondo comma, della legge n. 772 del 1972, nella parte attinente alla disciplina sanzionatoria, viola l’art. 3, primo comma, Cost.

A seguito delle precedenti considerazioni la pena edittale per il delitto di cui al secondo comma dell’art. 8 della legge n. 772 del 1972 va fissata, tenuto conto della pena edittale comminata dall’art. 151 c.p.m.p., nella misura di sei mesi nel minimo e di due anni nel massimo.

7 – Alcune ordinanze di rimessione, come ricordato in narrativa, propongono anche questioni di legittimità costituzionale dell’art. 27 c.p.m.p., in riferimento all’art. 3 Cost.

La questione non è fondata. L’art. 27 c.p.m.p. non risulta lesivo dell’art. 3 Cost. Non è irrazionale che alla pena della reclusione (non militare) inflitta o da infliggere a militari, per reati militari, sia sostituita la pena della reclusione militare di egual durata: né è irrazionale l’eccezione, stabilita dallo stesso art. 27 c.p.m.p., per l’ipotesi della condanna che importi la degradazione.

Va aggiunto che la maggioranza della dottrina fa leva sul meccanismo dell’art. 27 c.p.m.p. per riequilibrare quello che, a parere della stessa dottrina, costituirebbe una “svista” del legislatore: questi, infatti, commina, nel secondo comma dell’art. 8 della legge in esame, la pena della reclusione comune per un reato militare commesso da militare. Comunque, quali che siano le conclusioni in ordine a quella che, secondo la dottrina, costituirebbe “svista” del legislatore nel secondo comma dell’art. 8, certo è che l’art. 27 c.p.m.p. non è manifestamente irrazionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

Riuniti i giudizi:

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, secondo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772 (Norme per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza) come sostituito dall’art. 2 della legge 24 dicembre 1974, n. 695 (Modifiche agli artt. 2 e 8 della legge 15 dicembre 1972, n. 772, recante norme per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza) nella parte in cui determina la pena edittale ivi comminata nella misura minima di due anni anziché in quella di sei mesi e nella misura massima di quattro anni anziché in quella di due anni;

dichiara non fondate le altre questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 8, secondo, terzo ed ultimo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772, come sostituito dall’art. 2 della legge 24 dicembre 1974, n. 695, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 25, secondo comma, 27, primo e terzo comma, e 103, ultimo comma, Cost., dal Tribunale militare di Napoli con cinque ordinanze del 5 maggio 1988 (Reg. ord. nn. 459, 466, 467, 468 e 469/88) nonché con ordinanze del 12 maggio 1988 (Reg. ord. n. 470/88) 29 giugno 1988 (Reg. ord. n. 471/88) e 14 luglio 1988 (Reg. ord. n. 472/88);

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 27 del codice penale militare di pace, sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost., con le ordinanze del 12 maggio, 29 giugno e 14 luglio del 1988 dal Tribunale militare di Napoli.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 luglio 1989.

Il Presidente: SAJA

Il redattore: DELL’ANDRO

Il cancelliere: DI PAOLA

Depositata in cancelleria il 18 luglio 1989.

Il cancelliere: DI PAOLA