Paese Sera, giovedì 19 aprile 1984
Obiettori fantasma, obiettori imprigionati, obiettori negati. Le storie dei giovani che hanno rifiutato di prestare il servizio militare armato per sostituirlo con un periodo di lavoro socialmente utile dimostrano che l’operato della commissione del ministero della Difesa incaricata per legge di vagliare «i profondi convincimenti religiosi o filosofici o morali” in base ai quali si dichiara «di essere contrari in ogni circostanza all’uso personale delle armi per imprescindibili motivi di coscienza», non possa certo essere preso a simbolo di equità. «Alla fine del 1978 – dice Roberto Presentini, romano, 32 anni – stavo ultimando il sesto anno di medicina e dovevo dunque partire per il militare. Da tempo mi convincevo della scelta dell’obiezione di coscienza e quindi con un gruppo di amici della Garbatella, il quartiere dove vivevo, presentammo all’inizio del 1979 una regolare domanda per la richiesta del servizio sostitutivo. Pacifista convinto ero e sono naturalmente contro l’uso di ogni arma. Mai avuto un porto d’arma, mai una licenza di caccia, nessun precedente penale. Dopo aver inoltrato la pratica all’ufficio di leva del ministero della Difesa di piazza Adenauer all’Eur, rimani in attesa di qualche risposta. Ma per lungo tempo non venni chiamato per alcun colloquio né mi arrivò alcun messaggio per posta. Insomma il silenzio si è prolungato fino all’inizio del 1982, quando mi fu comunicato che … avrei ricevuto il congedo illimitato senza prestare la mia opera in nessun servizio sostitutivo. Che cosa era successo? Semplicemente che per ritardi burocratici dal momento della mia richiesta a quello della sua accettazione da parte del ministero erano passati 26 mesi che coprono abbondantemente i sei mesi di attesa ammessi da un’apposita circolare del 1977 dopo i quali anche se si rimane a casa vanno contati i venti mesi del servizio civile». Altro caso, altra paradossale situazione. Marco Verna, fiorentino, 26 anni. Presenta la dichiarazione di obiezione del dicembre dell’81. «In sostanza – scrive mi rifiuto di imparare a uccidere e di collaborare comunque all’attività bellica». Dopo 20 mesi una “doccia fredda”: la domanda è respinta. «E sapete perché? Mancanza di documentazione e comportamento che non si conforma al principio del legislatore. E poi mi è giunta la cartolina-precetto».
«Ma quale “documento” – dice Marco – può attestare la mia coscienza pacifista? E ancora: la mia non-idoneità viene anche dal fatto che a Firenze facevo parte del “movimento per la casa” e una volta sono stato denunciato e poi amnistiato per l’occupazione di un appartamento. Con questa logica, che ritengo ottusa non ci sto e mi consegnerò all’autorità giudiziaria alla scadenza della cartolina-precetto». Dal carcere militare dunque presenterà
Rosate, un paese in provincia di Milano, indica ancor più il livello di discrezionalità dei giudizi della commissione ministeriale.
La domanda è presentata nel dicembre del 1980. Non è chiamato a nessun colloquio e il 23 luglio del 1982 la pratica è respinta con la seguente motivazione: “Dall’esame degli atti
Non si è riusciti a raggiungere un valido convincimento sulla fondatezza dei motivi dell’obiezione di coscienza. Sì è indotti a ritenere che alla base della sua richiesta vi siano solo ragioni di comodo e di opportunità». Giuseppe è precettato a Caserta per il 1° marzo ’83. Si autoconsegna e finisce nel carcere militare di Peschiera del Garda. Pochi giorni dopo il procuratore militare lo interroga e gli concede la libertà provvisoria. La sua seconda richiesta di ammissione al servizio civile è rifiutata con gli stessi giudizi della precedente, frutto, sembra, di “accertamenti” dei carabinieri. In una interrogazione al ministro della Difesa i deputati del Pdup Eliseo Milani e Famiano Crucianelli hanno chiesto «se il ministro ritenga sufficiente per il “no” il riferimento generico (e pertanto inammissibile e offensivo) a una presunta “cattiva condotta morale e civile” pur smentita dall’assenza di elementi di fatto o, come dice la legge, “precedenti penali e psicopatologici”».
Paolo Boccacci
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