Il Manifesto, domenica 9 febbraio 1992
La decisione del capo dello stato di rinviare alle camere la nuova legge in materia di obiezione di coscienza ha provocato abbondanti perplessità e preoccupazioni sia per le motivazioni tecniche addotte sia per le considerazioni di fondo espresse in merito all’intero testo. Il partito dell’anti-obiezione, che trova adepti dentro ma soprattutto fuori dal Parlamento, o che era stato unanimamente sconfitto dalle decisioni delle camere, evidentemente ha avuto la meglio nel passaggio finale di questa legge.
Non sembrano accettabili le giustificazioni di ordine costituzionale, amministrativo e addirittura morale che avrebbero spinto Cossiga a rinviare il testo, come da lui stesso esternato nel messaggio tv di domenica scorsa. Ciò vale anche per l’insostenibile tesi del presidente secondo la quale il parlamento ha avuto troppa fretta nell’approvare la nuova legge che, invece, potrebbe essere “tranquillamente” esaminata dalle nuove camere. Cossiga dimentica, o non vuol ricordare, che il testo approvato in via definitiva dal senato il 16 gennaio scorso è il frutto di un lavoro durato ben sette anni e due legislature e che le questioni da lui sostenute sono state abbondantemente esaurite nel lungo dibattito tra i partiti, come risulta dalla semplice lettura degli atti parlamentari.
Chi grida preoccupato che la nuova legge possa permettere ai “furbi” di sottrarsi al dovere di difesa della patria, ignora che, paradossalmente, ciò può valere già oggi grazie all’identica durata che hanno il servizio militare e il servizio civile e che dal 1989 ha permesso un vero e proprio “boom” dell’obiezione di coscienza. È proprio per contrastare il pericolo d’imboscamento che il legislatore ha reintrodotto la maggiore durata (tre mesi in più) del servizio civile rispetto a quello militare, spiegandola molto artificiosamente con le esigenze di formazione e di addestramento. Se, dunque, dovessimo aspettare un nuovo parlamento per avere la nuova legge, non soltanto avremmo un ulteriore aumento di domande di obiettori (il che, comunque, non è da ritenere una sciagura per il nostro paese), ma soprattutto continueremmo ad avere una legge, la 772 del 1972, vecchia e superata nonché una gestione del servizio civile ormai a pezzi.
Al presidente della repubblica che pretende “rigorosi accertamenti” per verificare la fondatezza dei motivi di coscienza dei giovani obiettori chiederemmo volentieri quale sorta di “strumento” abbia in mente per valutare la “quantità” di coscienza contenuta in ciascuna obiezione e, soprattutto, se una tale prassi non sia in netto contrasto con la libertà di coscienza e di pensiero sancita nei principi fondamentali della nostra costituzione. Ricordiamo comunque che per la prima volta il testo di riforma prevede un codice di disciplina per gli obiettori, oltre a una serie di norme tese a controllare la gestione del servizio civile. Inoltre, non vorremmo arrivare all’appuntamento europeo con una legge che concepisce l’obiezione di coscienza come un beneficio per di più sottoposto a un tribunale delle coscienze.
Crediamo che non siano da considerare con sospetto i ventimila obiettori che non si sottraggono affatto al dovere di difesa della patria e che ogni anno scelgono di stare dalla parte della gente, “nelle cento città e nei mille paesi” della nostra Italia, svolgendo un servizio civile accanto agli emarginati, i tossicodipendenti, agli immigrati, agli handicappati o nella difesa dell’ambiente e del patrimonio culturale.
Sull’altra questione di fondo sollevata dal presidente della repubblica, la presunta superiorità del dovere costituzionale di difesa della patria rispetto al diritto costituzionale di libertà personale, basterebbe andare a rileggere le sentenze della corte costituzionale (cui Cossiga stesso fa inspiegabilmente riferimento) e in particolare la n. 164 del 1985 nella quale viene esplicitamente affermato che il dovere patriottico di difesa ha un’estensione più ampia rispetto all’obbligo del servizio militare e può esprimersi anche attraverso il servizio civile che, pertanto, “non si traduce assolutamente in una deroga al dovere di difesa della Patria”. Una sentenza, questa, che è stata pienamente recepita dal legislatore nel primo articolo del testo rifiutato da Cossiga, il che non diminuisce lo sconcerto provocato da tale decisione.
Anche il mancato recepimento dell’ultima sentenza della corte costituzionale sui cosiddetti “obiettori totali” (coloro, cioè, che rifiutano il servizio militare dopo averlo assunto) avrebbe potuto avere una diversa soluzione se si fosse accettato, con un po’ di buonsenso, l’impegno dichiarato del governo a emanare al più presto un decreto che integrasse la nuova legge senza doverla necessariamente rispedire al Parlamento,
Torna, allora, inquietante la domanda: “a chi giova tutto questo?” Il timore è che il parlamento si ritrovi con una sovranità limitata e che singoli provvedimenti legislativi diventino strumenti di altri e più generali scontri politici. Le vicende dell’ultima ora e la decisione della Camera di non procedere al riesame della legge, confermano molto tristemente ogni dubbio e timore.
Diego Cipriani e Licio Palazzini, segretario e vice-segretario della Consulta nazionale enti servizio civile
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